lunedì, dicembre 31, 2012

Elenchi sinceri e bilanci allegorici. Verso l'anno della polpetta


“La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli uomini si somiglino”.
(O. Pamuk, La valigia di mio padre)

  • Libro preferito: Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Chi non si identifica almeno in un passaggio?
  • Film preferito: Lisbon Story di Wim Wenders. Vince su tutto: musica, fotografia, leggerezza della storia. E poi quella scena iniziale: il frontalino dell'auto e le radio che cambiano lingua in Europa. Salgo a bordo, subito.
  • Musica: Sinfonia del Nuovo Mondo di D'vorak. E' l'incursione di un nuovo genere, il primo ascolto nasce da un nutrito suggerimento e poi il caso ha voluto regalarmi l'esecuzione dal vivo in un teatro di Edimburgo con oltre cento musicisti della Sinfonica di Dresda. Come potrebbe arrivare seconda?
  • Luogo: Parigi. Vittoria più sofferta, competizione forte, multi-etnica, vicina e lontana. Ma ne ho imparato a parlare la lingua, decentemente, quel tanto che è bastato comunque a farmela sentire casa dopo cinque minuti. Da ricontrollare.
  • Relazioni: direi che ci siamo. Certezza perfetta e insostituibile. Amori impossibili che  a loro modo dimostrano di poter esistere. Amicizie storiche che si confermano e si rinnovano, nuovi ingressi ricchi di sfide e spunti. E nel mezzo pause per godersela e capire come il rendere tutto più fluido e omogeneo. Sì ma senza ansie. Le mie unghie crescono e anche gli altri, al caso, possono scomodarsi un secondo.
  • Successi/Fallimenti: diciamo che coincidono all'insegna della comunità europea. Due bottiglie per brindare e poco dopo due bottiglie per dimenticare. Comunque al netto, una buona performance comunque e quattro buone bottiglie.
  • Acquisizioni: (a) nuova casetta che si aggiunge alla lista per farsi l'ennesimo luogo più amico; (b) discreta virata, in piscina, chissà per velocizzare i cambi di direzione?

Lettori, l'uomo ha inventato la letteratura per mettere in animo di personaggi inventati ciò ogni giorno si fa ma non è il caso di raccontare sempre o non si è in grado di spiegare appieno. Dunque, pace, non sarà in un post in prima persona che proprio io violerò questo tabù. Suvvia, facciamo gli onesti, non pretendiamo di esserlo qui e voi di leggere un bilancio onesto e trasparente. Rileggetevi l'elenco puntato, seguendo le sue indicazioni ognuno per il grado di conoscenza di cui dispone. Una piccola eredità simbolica c'è e, per quanto riguarda i mistero che vi resterà, godetevelo, perché, come dice uno dei miei maestri, non c'è vita se non resta un po' di mistero.

Vi auguro un buon 2013. Per me gli ultimi due anni sono stati gli anni dell'etichetta. Me ne erano finite addosso troppe e troppo distanti dal vero. Quindi ho rinnovato i tag di archiviazione: bene. Ma poi tutte queste etichette stile informatico stressano, esigono, esigono ed esigono, e ancora predeterminano. Allora il 2013 sarà l'anno della polpetta: d'accordo i progetti e le definizioni, ma intanto siamo qui, ora e imperfetti e non è che si possa aspettare sempre l'indomani, ordunque mescoliamo un po' tutto. Una passata di sugo e fresco e viene un piatto nuovo dal fascino antico. Ci vediamo alla tavola del nuovo anno: speriamo che sia pieno del caos canonico, di cui ci piace raccontare e parco nelle sfortune serie su cui poco resta da dire.

giovedì, novembre 29, 2012

Annibale e il poeta

Il fascino più grande di ogni certezza è il dubbio di chi la possiede. Annibale Mosconi lo sapeva bene e giocava sapientemente le sue carte. Uomo di fede, per credo, uomo di potere per professione, non dava mai all'emozione o all'affermazione il compito di svelare le sue incertezze. Le lasciava intendere continuandosi ad aprire al suggerimento. Regalava il suo sapere, con il visibile gusto nell'ascoltarsi e nel formare, ma non perdeva occasione, con elegante disinteresse, di raccogliere attento gli spunti del suo interlocutore. Per lui, così riservato, era il modo per scoprire senza domandare, e chissà, nonostante il tempo, forse ancora il modo per comprendere, controllare e  orientare.

Si recava ogni giorno al lavoro vestito con sobria eleganza. La cravatta sempre annodata e la giacca mai riposta richiamavano due cifre di un mondo lontano: un atteggiamento austero, rigido verso se stesso e le proprie imperfezioni, ma al contempo una cura del proprio sé e della propria immagine quasi aristocratiche. Sempre convinto di avere il diritto di potersi prendere il proprio tempo, non affrettava i gesti e, altrettanto familiare al controllo, non esitava a cambiare argomento alla conversazione secondo il suo desiderio.

Nella sua tana di libri intonsi, quasi imparati a memoria ma mai sfiorati con una sottolineatura, c'era da qualche tempo una poesia manoscritta. Descriveva i lineamenti di una donna di colore con la delicatezza e rotondità della traiettoria di una goccia d'acqua su di un viso. L'autore della poesia sedeva in quel momento di fronte ad Annibale. I due erano molto vicini anche se il poeta, più che col padrone di casa, sembrava all'apparire in maggiore sintonia con l'uomo che fumava fuori dalla finestra, in ciabatte, dall'altra parte della via.

Il poeta conosceva bene la profonda differenza tra sé e Annibale ma non aveva mai fatto nulla per nasconderla: del resto in vita sua aveva nascosto ben poco. Gli piaceva apparire e interrogare, farsi vedere senza svelare appieno la propria identità. Si vantava di essere orfano o zingaro di origine e di non sapere con esattezza né il luogo né il momento della nascita. I suoi vestiti, panni che si intrecciavano e sovrapponevano senza soluzione di continuità, erano il lascito delle cento identità a cui si era avvicinato. E tra queste ce n'erano alcune che l'avevano portato a guardare e leggere molti dei libri e dei film che Annibale amava. E così si divertiva, istrionicamente, a stupire l'uomo elegante che si era interessato ai suoi versi. Come in un gioco di prestigio, estraeva dalle sue caotiche vesti ordinate citazioni di pellicole espressioniste in bianco e nero e le recitava ad Annibale con la tranquillità di un grande critico. Quando il gioco riusciva, ne provava ogni volta grande piacere.

Era così che Annibale e il poeta erano diventati amici. Annibale non lo diceva, fedele al suo rigore. Il poeta lo nascondeva con una pacca sulla spalla, sempre un po' giocherellone. Ma nessuno dei due ne dubitava. Annibale era riuscito a prendere il giro il poeta, additandone un difetto con un bonario sorriso. E il poeta gli aveva parlato seriamente, senza recitare più nessuna delle cento identità che lo avevano vestito.

mercoledì, novembre 21, 2012

Sette anni e due coppie

“Inoltre la nostra capacità di previsione è ridicolmente miope (quasi sempre costruiamo le nostre ipotesi utilizzando uno specchietto retrovisore)”.
(George Steiner, Una certa idea d'Europa)

“Le altre società non sono forse migliori della nostra; anche se siamo inclini a crederlo, non abbiamo a disposizione nessun metodo per provarlo. Conoscendole meglio, acquistiamo tuttavia un mezzo per staccarci dalla nostra, non perché questa sia del tutto o la sola cattiva, ma perché è la sola da cui dobbiamo affrancarci: dalle altre lo siamo già naturalmente”.
(Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici)


“Mi piacerebbe andare a Lisbona, passeggiare sulle vie del porto come tra le immagini in bianco e nero di Wim Wenders”. La donna, la più loquace delle due, si rivolse alla coppia di uomini che sedevano dall'altra parte del piccolo tavolino con voce ancora più morbida del solito. Voleva vincere la loro leggera diffidenza e ritrosia a darsi completamente. “Perché non andiamo insieme il prossimo mese?”, aggiunse, accompagnando la domanda con un sorriso materno.

L'alchimia tra i quattro aveva gettato il primo seme circa un anno prima. I due figli erano già a letto al piano di sopra quando Mirta parlò al marito. Voce calma e distesa disse lui che avrebbe sinceramente desiderato continuare a vivere sotto lo stesso tetto, magari raccontando ai bambini che dormivano in camere separate per non infastidirsi nel sonno, ma che lei, da quel giorno in avanti, avrebbe vissuto in pieno la sua storia d'amore con Francesca. Amiche da sempre, come lui sapeva, si erano avvicinate già da alcuni mesi. La decisione era già stata presa, coscientemente, ponderata, sentita. Potevano discuterne le conseguenze, ma non cambiarla.

Claudio reagì, d'istinto, come il personaggio di un telefilm. Non aggiunse nulla, calzò le scarpe, indossò il giubbotto e uscì. Attraversò la leggera nebbia della pianura emiliana per restare in movimento e seguire con il corpo i gorgoglii della mente. Fece finire in fretta un cd e poi sintonizzò sulla radio: la voce del DJ parlava con la solita calma e questo lo tranquillizzò molto. Quando rientrò, qualche ora più tardi, non era ancora rassegnato ad accettare le parole della donna, ma, per il momento, sarebbe restato sotto lo stesso tetto, come gli proponeva Mirta. Gli sembrava la decisione più ovvia per non destare scandalo, conservare la famiglia e far riassorbire naturalmente quella piccola follia.

Le due donne furono però maestre e non porsero mai il fianco a una vera replica. Coprirono di velato riservo la loro passione e mascherarono di giocosa civetteria l'abbandono dell'uomo. “Secondo me – gli diceva Mirta – neppure tu sei del tutto diritto, Claudio. Mai, neppure per un momento, ho avuto il timore che mi potessi tradire con un'altra donna. Non le guardavi mai”. Convinte che un poco di follia fosse più utile alla causa che un gelido realismo, le donne si divertirono ad andare oltre e dal loro primo viaggio insieme riportarono un filmino porno con uomini di tutte le età. Lo diedero a Claudio, con tono adolescenziale, ma con tenacia da adulte. Fu così che guardarono assieme il film e lui, come molti di fronte a chi il peccato l'ha già commesso, si lasciò alla confidenza e si disse attratto dall'uomo canuto, dal più maturo.

Fedele a quelle sembianze, non più di tre mesi dopo, l'infermiere capo del reparto di radiologia seguì Claudio a cena con le due donne. Tutti liberi dai bimbi, lasciati a casa coi nonni, tra i quattro ci fu subito molta naturalezza, anche se gli uomini, specie il più anziano, sobrio e ricercato nei gusti, spinse la propria coppia ad assumere il ruolo dei “riservati”. Non cedeva mai troppo spazio alla vita comune con le donne e si riservava sempre qualche tempo prima di accettare le proposte che Michela e Francesca a ogni occasione lanciavano invece entusiaste.

Fu così anche per Lisbona. “Devo capire quando – disse l'infermiere –. Claudio non ha problemi il mese prossimo, ma io devo verificare i turni al lavoro: ho due donne appena assentatesi per maternità e, col personale di sala, copriamo appena i servizi specialistici”.

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Ascoltato quel breve racconto tra i fumi della propria pizza tra amici, il pittore di mezza età tornò a casa, si diresse verso lo studiolo e con delicatezza quasi religiosa riprese in mano il pennello che giaceva sul treppiede da oltre sette anni. Dopo tutto quel tempo a rifiutare di dare forma ai propri demoni nascosti, disegnò di nuovo sul foglio impolverato ancora steso lì dall'ultimo tentativo. Tracciò senza colore veloci linee solide che guardavano diritto verso la realtà: mentre lui non l'ascoltava, lei si era mossa sensuale, fluttuante, senza spiegazioni né fini.

mercoledì, ottobre 24, 2012

Scatole di personaggi

“In preda a un panico improvviso 
perché in quel momento capii che ciò che diceva mio padre 
non coincideva necessariamente con la realtà delle cose,
e questo per me trasformò il mondo in un'entità fluttuante 
cui era difficile aggrapparsi”.
(Per Patterson, Fuori a rubar cavalli)

Mattino fresco, in volo sulla manica, ultimo giro di caffè lungo. Ma anche ultime ore prima di ricominciare ad agganciare all'agenda il senso delle giornate: solo pochi sono stati così brillanti e bravi da potersi permettere lunghe pause e io non sono tra quelli e credo che non lo sarò mai. Mi hanno anche letto la mano: vita lunga, vita sana, ma non ricca. La terza conclusione, l'avevo già maturata anche sulla base di previsioni empiriche legate all'andamento del mondo e al mio ipotetico percorso in esso. Mancano solo poche ore, dicevo, all'inizio dei giorni qualunque. Un lasso di tempo così breve non fa per lunghe storie. E poi lunghe storie mancano. C'è piuttosto un gorgoglio di personaggi, tanti e tali da sopravanzare ogni trama. Non ne esiste una che li contenga tutti. O almeno non mi è parsa, a me, di averla vissuta. Una volta faticavo a tracciare una trama sensata per i mie percorsi nel loro dipanarsi, ma poi, messi questi alle spalle, davo loro una struttura. Ora anche questa è venuta meno. E' un po' come per una vecchia città. Non è facile intervenirvi rispettandone tutte le anime. Ce n'è sempre qualcuna che ne verrebbe lesa. E, in questi giorni, proprio non ne vorrei ledere nessuna.

Allora torno ai tempi dell'Università, quando, al primo anno, ci spiegavano come scrivere. A noi studenti raccontavano la storia delle “scatole”. Dovevamo costruire delle scatole virtuali – fisicamente dei fogli – e raccogliere in esse le idee, gli spunti, le citazioni, che ci venivano  strada facendo sull'argomento da trattare. “Costruite le scatole – ci dicevano – nel modo più informale possibile. La casa, il vostro testo, nascerà poi da solo”. Torno a fare il “sociologo”, dunque, e provo a inscatolare, fuori da ogni trama, un mese di casa e di mondo, di birre di skype, di teatri e traslochi. Una scatola, un personaggio.

In ordine sparso, non esaustivo del reale, ma solo di un mese di esperienziale, alcuni tipi di umanità:

Uomo saggio. Non reagisce mai troppo. Per indole e per formazione, pensa che reagire, emozionarsi o alterarsi sia dispendioso in termini energetici e moralmente opinabile. E' persona che ascolta molto e forse elabora, ma non è dato troppo a sapere, perché centellina i suoi interventi.

Uomo raffinato. Onnivoro nei suoi consumi culturali, spazia dal jazz americano alla classica contemporanea, dai film d'essay svedesi alla canzone d'autore italiana. Talvolta vittima di un eccesso di estetismo – ci si chiede se davvero quelle cascate di emozione scorrano a ogni sterile primo piano interminabile su una faccia stupida come tante – tale persona può essere assai gradevole, se le sue conoscenze diventano materie per condivisione o esplorazioni, o può invece essere fonte di tensioni se connotata dalla sindrome delle caccia alla “lacuna”, al libro mancante.

Uomo osservatore. Relativista per definizione. Silenzioso e meditabondo, cattura abitudini, gestualità e frasi comuni per ricondurle a uno schema noto o evidenziare eventuali originalità. E' persona che a volte manca di spontaneità, si trattiene, non vuole modificare il contesto e si perde parte del gusto, nel senso che non si perde mai del tutto. Non crede alle storie, sfugge alle appartenenze di gruppo, minimizza i propri trascorsi per non cadere negli errori che imputa agli altri.

Uomo fatalista con qualche dubbio. Ha perso un amico prematuramente, inaspettatamente. Non dà a vedere che questo ha incrinato il suo ateo attaccamento ai fatti del mondo – economia, relazioni internazionali, finanza – unici elementi determinanti dell'agire umano, ma talvolta cede e si sente solo. Probabilmente se lasciasse spazio a un sentimento, ne sarebbe travolto, privo com'è degli anticorpi che nascono con la frequentazione quotidiana delle proprie emozioni.

Uomo dolce. E' un'integralista della dolcezza. Ne vede ovunque. La sottolinea anche se è una componente irrilevante, anche se sa che l'effetto dell'overdose che produce sarà negativo. Non ho mai capito se l'uomo dolce ha coscienza di questo effetto. Ma se si prova ad affrontare l'argomento, la reazione è spesso mielosa: ci si sente come elefanti nel negozio della cristalleria. Problematico se permaloso.

Uomo abbandonato. E' riuscito a creare attorno al sé il vuoto assoluto. O per una fiducia eccessiva nella propria intelligenza o per scarsa propensione ad affrontare temi spinosi, ha nel tempo ristretto le proprie frequentazioni e ridotto le esistenti a scambi di cortesia. Ha un attaccamento innaturale alla madre, unica persona che lo ha tollerato. La costruzione mentale che ha fatto per proteggere la propria solitudine è di solito solida. Ma è un po' come la linea Maginot. Si può aggirare e dietro si scovano spesso praterie desolate che la fede non riempie e che nessun uomo ha più il coraggio di affrontare.

Uomo matto. E' in grado di vivere nel mondo sociale, ma, come una geometria non euclidea, traccia rotte che non hanno riscontri immediati. Mangia, beve, dorme e paga le bollette come te, ma poi ti riversa fiumi di parole e storie in ordine sparso crescente. Borbotta con i messaggi che la mente gli recapita. Un po' come tutti, ma i suoi sono più veloci ed escono prima del controllo sicurezza. Tu li reprimeresti per la paura di essere preso per pazzo. Lui invece li lascia liberi. E tu sei spalle al muro e non sai se prenderlo per pazzo come tutti o, finalmente, impersonare un po' dell'anticonformismo che piace attribuirti, e giocarti le tue carte alla pari. Con il serio rischio di perdere.

Uomo protagonista. A differenza del colto, che legge, ascolta e guarda, l'uomo protagonista interpreta. Canta, balla, scrive e fotografa. Di solito si autodenigra per sfuggire all'accusa di esibizionismo, da taluni si nasconde per sfuggirne completamente alla visuale, ma in genere ama il frastuono di cui si fa coprotagonista e il pubblico che tale frastuono attira. Si è sempre in dubbio nei suoi confronti. Ama veramente quello che fa, catturato come un rabdomante dalle sue pratiche, o invece si circonda di azioni per sfuggire al suo pensiero?

Uomo nomade alla ricerca di una sistemazione permanente. E' una persona che non vive un momento facile. Dopo lunga serie di dubbi, ha ceduto, ha mollato patria e famiglia per sposare il suo carattere nomade. Un po' per usura e un po' per il peso dei giudizi esterni, ora è impegnato a mettere su radici. Cerca di farlo con autentica serietà, ma ormai ha perso le certezze stanziali e non sa più davvero dove piantarle. E poi non riesce a fare a meno di una via di fuga. Basta un clima, un amico, un luogo da vedere, per riaprire la valigia.

Uomo di mestiere. Pescatori, ristoratori, artigiani, legnaioli. Di solito sono persone di poche parole. Dunque è lasciato all'osservatore l'onere di ricostruirne l'universo. E questo universo ricostruito, storicamente, si espande in due direzioni distinte. Se il mestierante è esotico diventa motore narrativo, primigenio, mentre se il mestierante è locale diventa simbolo di ottusità mentale o di nostalgiche rievocazioni dei tempi andati, quando anche l'osservatore era, o avrebbe potuto essere, taciturno e soddisfatto come il mestierante. Soggetti molto ambiti dai fotografi.

Uomo di fede. E' persona in fase di evoluzione. Anche lui è entrato nel modo della comunicazione e della dialettica. Se lo chiami, scende in campo e discute. Al novantesimo minuto, però, è costretto a fare come un tempo e lasciarti nel bivio: credere o non credere. Nell'ultimo aggiornamento del personaggio – fattore piacevole – tende a scomparire l'elemento di superiorità morale. E a una fede dubbiosa è già più facile credere.

Uomo (oltre o entro) i limiti. Che siano sportivi, intellettuali o geografici, i limiti sono centrali per l'uomo “limite”. Da una parte, le creature più meditabonde, riflettono ore o giorni prima di ogni seria azioni per valutare se qualcosa è alla loro portata, o meglio all'altezza a cui hanno voglia di collocare la loro portata. Dall'altra, le creature più smaniose vedono ovunque un limite da spostare in avanti. Magari non lo dicono, cercando di mascherare il tutto con una ricerca filosofica, ma l'obiettivo resta. Deve, perché è poi attorno a esso che si struttura il tutto.

Uomo amico. Si pensa che sia imperituro, ma cambia come ogni cosa che scorre. Geografia mutabile che va, viene, torna o scompare per sempre. E' il confidente per eccellenza. Solo che quando funziona talvolta determina cambiamenti tali che è poi difficile mantenere il livello di intimità di partenza. Si respira nell'aria se un uomo amico è in avvicinamento o allontanamento:   curiosità e inquietudine procedono di conseguenza.

sabato, ottobre 06, 2012

Il retroterra dei sogni raggiunti

Non ci dovrebbe essere troppo tempo nel mezzo. Invece quasi per tutti – chissà se è così anche per i geni? - ne passa sempre molto tra un desiderio e il suo avvento. Quando si comincia a desiderare qualcosa non la si conosce davvero a fondo. La si coltiva con l'immaginazione, la si desidera ingenuamente. I più, vinti dalla pigrizia, abbandonano subito questa visione e l'archiviano nell'universo dei “magari”: costruiscono così quel rifugio di chiacchiere e speranze che gli fa da placido approdo. Ma alcuni, i più perseveranti, si mettono in cammino per prendere davvero in mano l'oggetto dei loro sogni, il loro desiderio.

Ed è in quel cammino che affiorano le contraddizioni. Si conoscono persone, si leggono libri, si attraversano luoghi, si scambiano opinioni, si fa l'amore in luoghi impensati, si guardano film, si partecipa a feste a lungo sconosciute, si varcano soglie di nuovi locali, si scrivono mail e si eleggono nuove guide. Quel cammino porta lontano. E da laggiù la strada percorsa prende il comando e detta lei la direzione, come un binario proiettato in avanti. Succede, anche se le ombre lontane da cui tutto era partito in vero non interessano più, sono quasi estranee.

Feci questo ragionamento alla fine di una lunga e incessante serie di telefonate che dal primo mattino non mi davano tregua. Il ritmo delle domande superava il mio impegno nel compilare la lista delle cose da fare. Una chiamata privata per la lettura del contatore di casa interrompeva la serie di conversazioni lavorative per terminare la stesura di un atto, completare un rendiconto, richiedere le pulizie di una sala, firmare un foglio di ferie, sottoporre un comunicato all'ok, avviare l'upload di una galleria di immagine per una giornalista, fare il giro di telefonate agli alberghi dell'ala nord per gli ultimi dettagli del programma. Rispondere a tutto - il sogno iniziale - era impossibile. Nel brusio generale, i tentacoli dell'organizzazione vincevano, insinuavano le loro crepe.

Pensavo al tempo in cui per arrivare a quel ruolo avevo corso fino allo stremo. Perché mi avrebbe aiutato a dare peso alle mie idee, credevo, ai miei progetti. Pensavo che avrei potuto prendere quel mondo per mano e dargli la mia direzione. Invece in quel momento ero stanco, come un viaggiatore frastornato di fronte al tabellone che elenca sempre nuove mete.

Ripresi il mio brogliaccio in mano e con le frecce tornai ad aggiornare l'ordine delle priorità, chiedendomi se, a forza di cambiarlo, avrei mai avuto la forza di partire dal punto uno.

mercoledì, settembre 26, 2012

L'attesa del primo incontro

Colloquio fissato per le ore 10 al terzo piano: sala riunioni piccola, tavola tonda, occhi che si possono incontrare facilmente. Lo attendeva Cecilia Marino, da sei mesi la responsabile dell'area teatri-arene estive. L'aveva già ascoltata più volte nel corso di riunioni e salutata cordialmente negli spazi comuni, ma era la prima volta che saliva da lei da solo per un tempo probabilmente lungo, per parlare di cifre e contenuti, bilanci e idee.

Quando era a scuola, spaventato da un compito in classe imminente, si consolava delle sue tensioni guardando gli studenti più grandi. Nella loro età adulta vedeva un tranquillo approdo: a quell'età, ormai cresciuti, le sue paure infantili sarebbero scomparse, nascoste da un solido muro di certezze. Ma l'età degli altri studenti era stata raggiunta e superata senza nessuna solida eredità. Quelle prime volte così importanti per lui – ricordava ancora la madre quando gli diceva di fare bella figura alla prima interrogazione per andare naturalmente meglio nelle successive – continuavano a ignorare l'esperienza: a ogni riproporsi, palesavano nuove inquietudini e nuove incertezze. E lui, indeciso se vantarsi del dubbio dei dotti o rimproverarsi l'insicurezza dei pavidi, non aveva ancora studiato una strategia davvero vincente per bussare, aprire la porta e avviare il dialogo senza titubanze.

Quel giorno aveva attinto alla strategia della ripetizione, come la chiamava lui. Salendo le scale, stava immaginando chi era Cecilia e come si sarebbe potuto evolvere il dialogo. Pensava e ripensava alle prima battute del loro incontro, si faceva le domande e si dava le risposte. Aveva scelto le scale per prendere più tempo e regolare il respiro. E a ogni scalino rallentava il ritmo per guadagnare tempo. Solo che Cecilia Marino gli risultava una trama impossibile da governare. Cercava di prevedere più scenari per essere pronto a ognuno di essi, ma questi non facevano che crescere e ne perdeva il controllo. Il ritmo del respiro cresceva, i polpastrelli già erano umidi. Sapeva di cosa si occupava, ma, al livello organizzativo di Cecilia Marino, la materia era ampia: poteva chiedergli se erano in regola gli adempimenti sulla sicurezza, se il palco aveva una metratura sufficiente per spettacoli di movimento, se la gestione diretta era da preferire a un affidamento esterno, se finora si era privilegiato un cartellone popolare o la sperimentazione, il ritorno di pubblico, le collaborazioni con le produzioni esterne, i costi degli allestimenti. Ma era difficile, secondo lui, che si partisse da lì. A livello di Marino consideri routine tutto questo. L'anteprima, quello scampolo di conversazione in cui cerchi di capire se è meglio restare sul lei dell'autorità o passare al tu della fiducia, la insaporisci con altro. Vai agli spettacoli, ai generi, sondi il retroterra, verifichi se c'è un approccio al mondo che si condivide, se c'è qualche conoscenza comune su cui ritirarsi nei momenti di scoramento o negli slanci più creativi. Poteva chiedergli allora qualcosa sull'ultima stagione. Forse il film preferito tra quelli inseriti nella retrospettiva sul Neorealismo. Oppure il rapporto tra musica e parole nelle opere allestite per il calendario lirico. Questo era un tema delicato. Non era mai riuscito a fingersi un melomane. Avrebbe criticato istintivamente ed era troppo prematuro per farlo, ma, restando sul vago, avrebbe masticato solo poche parole. Mentre chi è in sintonia autentica, prosegue, rilancia, ripropone.

“Buon giorno” disse Cecilia Marino facendosi incontro alla porta.
“Buon giorno a lei” rispose il subalterno, riuscendo a ricambiare il sorriso. Sentiva il tempo accelerare. Il tempo prendeva sostanza e si depositava tutto dal suo lato: forse anche lei era tesa, ma il superiore può prendersi il tempo di capire prima di agire; lui invece era chiamato a far capire, era il primo a dover partire.
“E' la prima volta che ci incontriamo – precisò la responsabile -. Ci vorrà un po' di tempo. Desidera un caffè prima di sedersi”.
Lo avrebbe bevuto volentieri, ma evitò. “Possiamo cominciare subito per me”, disse. Era meglio scansare alle prime battute i campi troppo aperti.
“Bene, allora accomodiamoci – proseguì Cecilia Marino – Non saprei da dove iniziare. Mi faccia un quadro generale che poi ci confrontiamo assieme sui dettagli e sui rapporti con gli altri palcoscenici”.

Foglio bianco e penna nelle mani. Alla fine questa era la sua trama di giornata. Gli piaceva, si sentiva a suo agio nel genere libero. Cercò di mettere in ordine le idee e di scacciare via quel ricordo lontano di una mattina al liceo in cui di fronte a cinque minuti di tempo, come il più grande degli idioti, era riuscito solo a fare avanti e indietro con la propria confusione.

venerdì, settembre 07, 2012

La donna con i dubbi di Berlucchi


“Non ho voglia di stringere la mano a Hergé ma mi piace Tintin.
E poi, tu credi davvero di essere irreprensibile?”
(J.M. Guenassia – Il club degli incorreggibili ottimisti)

E' da tre giorni che penso a una bottiglia. Mi è arrivata come nel modo di dire della bottiglia in mezzo al mare: di fronte alla porta come un messaggio. O meglio senza messaggio. Sono rientrata a casa e ho visto la bottiglia di fronte alla porta. E non una bottiglia qualunque. Berlucchi: nettare buono, nettare per un'occasione, sicuramente un'occasione. Ma quale occasione? Ho eliminato subito le ipotesi più semplici. Mio padre: in due parole era chiaro, non ne sapeva niente, ma ne ero certa, non era il suo tipo di regalo. Ho chiamato il mio ragazzo. Se non l'avessi fatto sarebbe stato meglio. Le sue paranoie si sono aggiunte alle mie. E' stata dura fingere di concentrarmi a calmare le sue ansie. Avevo le mie curiosità che mi si attorcigliavano ai capelli come serpenti alla testa di una medusa. Berlucchi, Lucchi: c'è un Lucchi, sì, ma dai, non avrebbe senso, fino a me?. Berlucchi, Bergamini: quella era solo una mostra e le mostre non fanno regali. Berlucchi, battaglia. E questa da dove viene, che non fa neanche assonanza? Ah già, forse, dalla famosa citazione di ieri sera: “Meglio picchiarsi che amici”. Tranquilla, non stai diventando violenta. Si picchiavano in un libro di buoni sentimenti e gli amici erano solo quelli della Tv. Sei ancora di sinistra non comunista e cristiana non cattolica. E poi il vino, quello sulla tavola intendo, anche lui deve avere detto la sua. Un sangiovese travestito da Lambrusco. Tutte quelle bolle, deve aver fermentato un po', e a me ha fomentato l'ansia ancor di più. Di sapere la storia di quell'altra bottiglia di Berlucchi, che, per la cronaca, è da tre giorni che penso ed è ancora là fuori dalla porta. Un mio amico mi ha detto di rilassarmi un po' e di guardarmi Zorro contro Maciste. A parte che non lo troverò mai – perché lo scarichi, qualcuno deve averlo caricato, improbabile, non lo Yeti che me ne ha parlato – e diciamo inoltre che Zorro è un bandito in maschera. Un altro travestito. Come il Sangiovese mascherato da Lambrusco. Qui è tutta una copertura. Di giorno lo sono io e di sera lo sono le mie cose. Pirandello aveva detto molto, ma non abbastanza. Anche gli oggetti hanno identità relative. Io ci brindavo a capodanno con il Berlucchi, ci bagnavo la certezza del divertimento. Ora invece la bottiglia è chiusa là fuori dalla porta e tiene in secca il dubbio. Ché poi anche se il dubbio trovasse il suo mare non saprebbe dove salpare. C'è chi dice nell'umanità di un incontro leggero, come in Mediterraneo, e chi nella solitudine di un viaggio assoluto come Notturno Indiano. Io fluttuo. Sono come il Berlucchi. Ho le bollicine, ma tengo il tappo stretto. Le conoscono solo quelli che sanno che ci sono.

“Vini Fratelli Berlucchi”, leggo la descrizione: “E continuano ancora, queste amate terre a darci le loro uve, gli Chardonnay ed i Pinot Bianchi, i Cabernet, i Merlot, i Barbera, i Nebbioli ed i Pinot Neri. Severissima potatura, produzione per ettaro molto bassa, vendemmia solo manuale, pressatura soffice, affinamento ed invecchiamento in grandi e medie botti di antica tradizione italiana, sono il percorso da sempre seguito per le nostre varie produzioni, 400.000 bottiglie in totale fra vini fermi e classiche bollicine”.

Chissà chi avrà lasciato la bottiglia di fronte alla porta?

Per la cronaca comunque ho deciso di adottare anche questo dubbio. Ho preso il Berlucchi dei famosi fratelli e l'ho messo in frigo. E' lì che aspetta il prossimo scambio vero, di soli dubbi e imperfezioni.

mercoledì, agosto 15, 2012

Una sera su una terrazza nove anni dopo

“Non mi do neppure pena per l'efficienza di un dipendente” disse lei rivedendo lui nove anni più tardi su una terrazza di una città di provincia. “Basta che una finanziaria decida di scomporre un'azienda e rivenderla, per bruciare in attimo più di quanto centinaia di persone efficienti possano riuscire a costruire in una vita”.
“E' vero, ma ciò nonostante, non si può tralasciare la responsabilità individuale - rispose lui -. Non è il costo infinitesimale del dipendente il danno, ma il tradimento al servizio che si deve svolgere. Non è una questione di saper fare o di fare in fretta, ma di farsi carico del problema altrui, di alleviarne il peso, talvolta rimuoverlo. Specie nel settore pubblico, è fondamentale difendere dal tradimento questa vocazione primaria, pena il legittimare, per la stupidità di pochi, la voce di chi accusa il pubblico come forma di intervento”.

Il tempo passato aveva depositato memoria in entrambi. Non ancora abbastanza per allontanare i periodi precedenti in un tempo ideale, ma già a sufficienza per avere ricordi coscienti, ricordi adulti, di tante scelte, della loro genesi, delle loro conseguenze. In lei, il compromesso si era infine fatto spazio: la quotidianità era un costante esercizio per affrontare il lavoro senza trascurarlo e nel contempo conservare le forze per cercare altro e abbandonarlo senza rimpianti. In lui, la familiarità con le dinamiche della politica aveva acuito la sua abilità nel districarne l'intreccio, ma d'altro canto aveva rafforzato il desiderio di lasciare la parte più complessa di sé lontana da lì, pronta per cambiare il mondo come la sua amica desiderava anni prima. Entrambi, poi, erano stati costretti a perdere: sapevano che non potevano tutto. Così come però sapevano di potere molto, quando riuscivano a non distrarsi, a non cedere alla stanchezza, a dare veramente importanza a un obiettivo. E così per entrambi restava un po' di amaro in bocca se nell'incerta ricerca di un posto nel mondo o di un'alternativa a esso, finivano per arenarsi in entrambe le direzioni, esausti.

Lei aveva appena avanzato un progetto di ricerca per ritornare nell'amato cuore teorico e sociale del mondo, lui era in dubbio se intraprendere un periodo di studio per ripartire più agguerrito nella caccia di un lavoro altrove.
“Ma vorrei camminare attraverso il Mediterraneo - disse lei – ti piacerebbe venire con me?”.
“Lungo quale percorso?” valutò lui, pensando alla partenza.

Sul tavolo c'erano bottiglie di vino e di whisky e l'ora tornava finalmente a farsi tarda.

domenica, luglio 22, 2012

Né al centro, né agli estremi


Mi capita spesso di pensare che la mia vita sia più indistinta di molte altre. I giornali raccontano percorsi nitidi ed estremi che si condensano in uno slogan. C'è il grande sportivo che riassume il senso di mesi di allenamenti e rinunce in un traguardo tagliato di fronte al mondo. Oppure c'è l'artista debole che si consuma fatalmente nelle sue esplorazioni ai confini dei sensi. Il significato del sacrificio di entrambi è facile da riassumere. Così come la tenacia di chi si attesta silenziosamente al centro: una routine accettata con pacatezza in cui la gioia sincera per una cena cucinata da cima a fondo agli amici riempie il vuoto lasciato da grandi slanci, che non arriveranno mai, né a gettare luce, ma neppure a creare inquietudine.

Io invece mi sento un pendolo in costante oscillazione, senza un suo equilibrio. Riesco a vivere la quiete di ogni giorno solo come pausa per una nuova pagina da esplorare e se questa tarda sono io stesso con la mia inquietudine a turbare le acque, a rimescolarle forzosamente, insofferente verso un'attesa prolungata. D'altro canto però lascio il centro senza la tenacia che consente ai grandi uomini di attestarsi all'estremo. Sento il fascino del bagaglio leggero, della vita selvaggia di un nomade, ma poi in ogni altrove e in ogni tempo finisco per proiettare qualcosa da costruire o qualcuno da diventare: lo zaino resta in fondo alla stanza e tutto attorno vi cresce il gomitolo di relazioni del mondo. Pazientemente occorrerebbe conviverci con queste relazioni, modificarle, scalarle, reciderle, concentrarsi su un unico obiettivo, puntarlo senza incertezze, contro il vento e contro le maree. Ma una volta tracciata la rotta, raggiunte le correnti dell'oceano dove i grandi velieri si contendono lo spazio, spiagge calme, baie quiete fanno sentire il loro richiamo e insinuano il dubbio nella mano che regge il timone.

Non c'è continuità tra ciò che accade prima e ciò che segue, non c'è consonanza tra ciò che accade fuori e ciò che accade nella mente.

giovedì, luglio 12, 2012

La quarta via

Per legge non dovrebbe mai durare troppo, estendersi, ripetersi, farsi assoluta. Ma chi la possiede ne fa spesso una ragion d'essere, ne argina le perdite, la vuole perpetrare e la fonda su basi profonde. E' detestabile, ma finora imprescindibile. L'unica che produce effetti a lungo termine è quella che dura poco e si fonda sulla conoscenza, ma la più facile a ottenere è quella che promette a breve e si circonda di conoscenze. Chi la costruisce spesso travalica le regole, ma chi la osteggia sprofonda in un conflitto ideologico e chi presume di ignorarla viene eclissato dalla storia o, peggio, travolto da essa. E' quasi sempre ovvio dove eccede, ma quasi mai il modo legittimo di evidenziarlo. E' invocata nel bisogno, ma fuori di esso pochi ne sentono ancora la necessità.

Vorrei poter conoscere meglio l'autorità da chi non la cerca, da chi non l'ha combattuta e da chi non l'ha evitata coscientemente. Ma la ricerca non trova approdo, né io potrò darne a chi tenterà di solcare lo stesso mare.

domenica, giugno 17, 2012

Trame di incerta consistenza sulla piazza

Già da qualche minuto era seduto a guardare la piazza della sua città. Non osservava né gli edifici né le persone che la attraversavano. I suoi occhi erano concentrati su una fitta rete di trame invisibili a cui non riusciva a dare con certezza una consistenza: era una trama vera, che esisteva, con cui si doveva confrontare, o era solo una proiezione della sua mente, del suo modo di vedere il mondo?

Ne aveva parlato molto e letto altrettanto, ma né le parole udite né quelle scritte, che in quel momento cercava di richiamare a raccolta, riuscivano a dirgli se quelle fitte trame fronte lui – i legami di responsabilità che lo legavano a molti dei presenti – erano qualcosa di serio e tangibile o una cervellotica superfetazione di un io troppo sociale per essere indipendente. Avrebbe voluto alzarsi e correre contro quelle strisce che collegavano case e persone, date ed eventi, passato e ricadute future, ma, come sfingi, quelle sarebbero rimaste lì e, finita la corsa, avrebbero continuato a lasciare incerta la natura della loro esistenza.

Sotto quel reticolo mancava l'aria, non vi poteva restare troppo a lungo. Sentiva, in tal senso, ogni riga come un laccio che limitava i propri movimenti e allora, volentieri, avrebbe voluto rompere tutto, recidere quella nube sociale tra sé e il mondo. Dall'altro lato, però, sentiva che nello sforzo di passare delicato in mezzo ai quei fili, nel tentativo di non urtarli mai, si nascondeva parte del suo fascino: quei fili, si era resa conto, esistevano un po' per tutti, e molti si affidavano a lui, che così lucidamente li vedeva, per attraversarli indenni, sentirsi protetti dagli attriti delle relazioni tra uomini.

Era possibile conservare quella lucidità che aiutava gli altri senza restarne in prima persona intrappolati? O l'unico modo per sopravvivere a quelle maglie, che nascevano a ogni “no” che non si aveva avuto il coraggio di dire, era lasciare ogni volta il luogo ove il gomitolo era troppo fitto?

mercoledì, maggio 30, 2012

Il cammino ritrovato

(pubblicato in AmbienteInFormazione di Maggio 2012)

“Questo cammino ha coinciso con un momento di crisi lavorativa nel campo del restauro e con il corso da guida ambientale escursionistica che, proprio in quel momento, ho deciso di frequentare presso l'istituto Esedra di Lucca, dando seguito a oltre venticinque anni di montagne vissute per passione. Era il momento per fare questo cammino”. Nino Guidi, restauratore di lungo corso, guida di recente abilitazione, motiva così il cammino da Munkathvera a Roma sulle orme dell'abate Bergsson che intraprenderà per cinque mesi, a partire dal prossimo 18 giugno, quando da Bologna volerà verso Keflavik. “Incontrerò il vescovo di Reykjavik – spiega Guidi – e l'associazione degli italiani che risiedono in Islanda, poi, dopo due mini trekking nella zona, mi sposterò a nord, fino ad Akureyri, vicino all'abbazia di Munkathvera, residenza dell'abate Bergsson. Da lì, con un cammino di quindici giorni e 490 km fino al porto di Seyoisfjordur, nel nord-est, inizierò davvero a seguire le orme del pellegrinaggio compiuto nel 1100 dal religioso islandese”.

Il percorso, descritto da Bergsson in un documento latino tradotto in italiano nel 1944 da Magoon, è lacunoso nella parte più a nord: dagli scritti si legge solo che dal porto di Seyoisfjordur, il religioso navigò fino alla cittadina norvegese di Bergen, da cui poi, sempre in nave, raggiunse Hirtshalls in Danimarca. Dalla penisola danese in poi, invece, la descrizione si fa più attenta e puntuale e, seguendo i nomi delle città attraversate, si traccia una linea che attraversa la Danimarca, la Germania occidentale – circa a metà strada tra il percorso francigeno a ovest e quello romeo a est –, la Svizzera fino al Gran San Bernardo. Da questo valico in avanti i passi di Bergsson si uniscono a quelli propri della Francigena fino a Roma, prima meta dell'abate che poi proseguì ancora fino a Gerusalemme. “Mi intriga capire – spiega Guidi – le ragioni che in un tempo così lontano, senza alcun equipaggiamento tecnico, spinsero un uomo a intraprendere un viaggio così lungo. E' anche per questo che, dopo aver utilizzato gli scritti dell'abate Bergsson per preparare il saggio finale del mio corso da guida, ho deciso ripetere personalmente il suo tracciato. Lo seguirò nel segmento islandese, per quanto possibile stante le scarse descrizioni disponibili, e poi lo seguirò di nuovo in maniera più attendibile e completa nei circa 3500 Km che congiungono la Danimarca a Roma, dove conto di arrivare verso la fine di ottobre”.

Sulla strada di Bergsson con Guidi ci saranno per lunghi tratti altri tre compagni di viaggio, conosciuti durante camminate precedenti. Il milanese Giovanni Mercandalli, la romana Lucia Giannotta e la futura guida della regione Marche Patrizio Pacitti. Nel tratto di cammino in Germania, Guidi sarà poi accompagnato dai pellegrini tedeschi afferenti all'Associazione Via Francigena e a quelli dell'Associazione Romweg costituitasi lunga la via Romea di Stade. Dalle tappe danesi fino a Roma, di cui il calendario sarà aggiornato dinamicamente su www.montagnedilegami.it, chiunque potrà mettersi lo zaino in spalla per seguire per qualche tappa del percorso la guida toscana.

I luoghi e le persone conosciuti nei suoi cinque mesi di marcia saranno descritti da Guidi attraverso un blog ospitato dal sito di www.repubblica.it, vetrina nazionale affiancata a quelle toscane offerte da Il Tirreno e da Toscana Oggi. Guidi scatterà poi una selezione di immagini per Scarpa, sponsor tecnico del pellegrinaggio assieme ad Abiogen, Elleffe, Colortecnica. Oltre a queste imprese provate, a sostegno del progetto si è inoltre mossa anche una rete di piccole donazioni recuperate via Web, attraverso il crowd funding, fino a coinvolgere persone residenti in Argentina.

“Da questa esperienza – conclude Nino Guidi – conto di maturare l'esperienza per poter riproporre alcuni segmenti del percorso ad altri camminatori, utilizzando la direttrice come motivazione per conoscere a piedi tutta la zona attraversata. Più in generale, però, vorrei che questo cammino diventasse per altri ciò che è già diventato per me. Un'occasione per rilanciarsi, lasciare chiarire le idee e allontanarsi un po' dai numeri che troppo spesso ci circondano. Penso per esempio a fotografi o disegnatori che magari faticano a trovare un impiego: sulla strada, scattando e disegnando, possono trovare materiale per una mostra, e, senza un obiettivo prefissato, aggiungere un complemento importante alla loro attività canonica”.

domenica, maggio 20, 2012

Soglie

Gli occhi erano fissi sul lampadario che continuava a oscillare. Poi la terrà tremò di nuovo e la donna si abbandonò infine all'istinto di fuggire. Si vestì attraversando le stanze che contenevano le ricevute del lavoro, le parrucche delle feste d'adolescente, le foto di viaggio di una vita, il computer, i vestiti. Da un piccolo cassetto nascosto raccolse un piccolo gioiello della nonna, dal comodino un collier e dalla tavola in sala un film di Truffaut preso a noleggio pochi giorni prima. Mise tutto in borsa e, carica solo di quei ricordi, corse fuori dalla casa tremolante che stava per sommergere tutti gli altri.

A qualche centinaio di chilometri intanto un uomo stava incamminandosi a passi lenti verso la sua prova. Respirava attorno all'isolato come un centometrista fermo ai blocchi, lentamente per liberare il pensiero. Aveva lasciato in auto lo zaino, i libri, gli appunti, i documenti inutili. Con lui restava solo una piccola bambolina scaccia pensieri regalatagli anni prima da una persona che non vedeva più da tempo. Prese la piccola statuina in legno nella mano destra e con la sinistra cliccò il bottone per salire al piano ed entrare nell'aula dell'esame.

domenica, maggio 13, 2012

L'uomo che non leggeva più romanzi

Giampiero entrò nel caffè e scelse un tavolino laterale, raccolto tra due panche e la parete. Vi si sedette e attese il cameriere in livrea per ordinare il miglior whisky alla carta.
“Viene dall'Indocina?” gli chiese dopo aver scambiato diverse battute sui distillati disponibili.
“Vietnam, signore” rispose l'uomo di sala.
“Ci sono stato tre anni fa – disse allora Giampiero con il viso sorridente – magari ci siamo già incontrati anche là. Di dov'è?”.
“Un piccolo villaggio al nord signore. Non vi rientro da 37 anni. Sono arrivato in Italia come rifugiato politico. Il mio passaporto mi permette di andare ovunque nel mondo salvo che a casa”.
“Mi scuso, non volevo toccare un tasto così delicato”.
“Non è nulla. La mia vita è qui e non rimpiango quella che ho abbandonato” disse l'omino dai tratti asiatici allontanandosi educatamente-

Rimasto solo, Giampiero annusò il distillato ambrato che lasciava salire i suoi profumi sedimentati nel tempo. L'aveva preso invecchiato dieci anni, esattamente il tempo che era trascorso dalla lettura dell'ultimo romanzo. Dieci anni prima, poco più che cinquantenne aveva sfogliato le ultime pagine di narrativa: un'anonima raccolta di racconti prodotta a margine di un concorso letterario. Poi più nulla. Si era promesso di dedicare la sua attenzione solo a saggi rivolti al futuro: a disegnare l'orizzonte politico e tecnologico che avrebbe determinato l'evolvere dei gruppi umani e la loro geopolitica. In quel momento aveva disinnescato gli ultimi sogni sull'animo umano e le relazioni internazionali gli erano sembrate, con logico realismo, i soli elementi utili alla riflessione.

Non aveva rinnegato le migliaia di pagine lette prima di quella decisione. Solo che, più la vita lo attraversava, più i rapporti tra le persone e tra le persone e i loro stessi pensieri, gli sembravano prevedibili. Aveva vissuto in due nazioni, parlava correntemente tre lingue, aveva due case nel cuore della società, una famiglia piena di ramificazioni, protagonismo politico e un numero di conoscenti che cresceva più velocemente di quanto desiderasse. Dopo pochi istanti di fronte a una persona, ne poteva raccontare la biografia con temibile precisione. I romanzi raccontavano storie che lui riusciva già a leggere da solo nell'esperienza. Avrebbe dunque letto quei testi solo per trovare conferma a quello che già conosceva o intuiva. Ma lui non era quel genere di lettore. Per lui il tempo non era un cerchio da analizzare a ogni giro ma una linea di cui bisognava prevedere l'andamento.

Bevve allora il primo sorso dal suo bicchiere. Voleva brindare a quei dieci anni spesi senza tempo perduto. E lo voleva fare solo, perché, confrontandosi con altri, magari dovendosi giustificare, avrebbe dovuto perdersi in discussioni prevedibili.

Allungò un altro sorso. Tenersi lontano da fiumi di parole, che già sapeva essere sterili, era la forma di libertà più preziosa che si era saputo regalare.

lunedì, aprile 30, 2012

La chitarra, la voce e il piacere del rientro

Le note dei Rolling Stones coprono il rumore dei motori mentre l'aereo si allontana da terra. E' un motivo di voce e chitarra, la storia di un uomo solitario che cammina come nei film, solo tra la polvere verso il tramonto. Un biglietto della metropolitana accartocciato nella tasca resta l'unica traccia fisica della città lasciata. Amori, vini, sorrisi, intese, piccoli contrasti, prospettive consumati tra le vie hanno più solo la consistenza del ricordo. Neanche quando è piacevole il presente può ripetersi per sempre. Un aereo, un treno, un bus, un'auto che partono, d'un tratto lo chiamano passato.

Con la voce e la chitarra nelle orecchie, con il biglietto arrotolato nelle mani, un sorriso si fa spazio sul viso. Bisogna nasconderlo un po' perché il vicino che non ti conosce potrebbe non capire. Capire il piacere leggero di un luogo appena lasciato, di una parentesi di vita appena terminata. Là dietro, entrambi, la vita e il luogo, sembrano così ordinati, così inevitabili e gustosamente ovvi e familiari, così certi. Come chi scrive quando termina una frase: finalmente quella esiste, scorre amica, e si può infine lasciare la tensione a cui ci si era costretti per non perdere il pensiero mentre nasceva. Eravate così ansiosi di arrivare che non potevate godervi ogni parola e ogni luogo, ogni sillaba e ogni persona. Ora invece li avete in mano: nessuno più potrà privarvene.

Peccato per la mamma che con voce stridula, nel seggiolino di dietro, chiede al suo bambino che lezioni avrà a scuola il giorno dopo. Toglie al piccolo il gusto del rientro. Quello domani avrà alle spalle un altro luogo pieno di ricordi, che forse avrà paura a rivedere. E un'altra frase da iniziare, con la paura di perdere le parole.

martedì, aprile 10, 2012

La pausa

“Su questa cima, qualche anno fa, ho trascorso una delle mie prime notti all'aperto tra un giorno di cammino e l'altro. Era un bel periodo. Lo zaino era come uno scudo: quando lo mettevo sulla schiena passato e futuro si allontanavano, restava solo il presente, riflesso in un bicchiere di vino rosso e in una fiamma oscillante”. L'uomo che aveva parlato si era rivolto all'amico con una leggera malinconia. Era seduto nello stesso luogo in cui erano ambientati i suoi ricordi, ma il dialogo con il paesaggio non era più quello di un tempo: su boschi, valli e crinali si proiettava sempre l'ombra di progetti e piccoli rimpianti. Tra allora e oggi non era successo nulla di drammatico o di rivoluzionario: c'era stato solo un lento fluire, che però sembrava aver lasciato un po' di sabbia sul fondo, come un fiume in pianura.

“Resta pur sempre una pausa” ribatté il compagno, che aveva percepito la nostalgia di chi gli stava accanto. “Sei ancora in grado di sentire il bisogno di salire fino a qui e parlare a lungo con un paesaggio silenzioso, che non inganna le tue paure con messaggi, rumori, grandi numeri. Sei ancora in grado di prenderti una pausa e godertela”.

“Mi posso ancora prendere una pausa, è vero, ma forse non riesco più a godermela. Forse è proprio questo il punto. Sono cresciuto troppo per non sapere che prima o poi qualcuno, o peggio ancora te stesso, ti rinfaccerà la pausa che ti sei preso”.

Il vento si portò via subito quella frase, ma il suo eco restò tra i due seduti sulla cima. Neanche chi prima aveva replicato alla malinconia sembrava infatti capace di sfuggire a una sentenza che, con meno onestà, anche lui aveva già intuito da tempo. Il pensiero cercava una via di fuga in situazioni che suggerissero conclusioni diverse: un gruppo di amici che tirava a tardi, una famiglia che si riuniva per una grigliata all'aperto, un genitore che accompagnava il figlio alla cerimonia di laurea. Ma nessuna di queste situazioni era davvero al sicuro dal pericolo che la frase dell'amico aveva svelato: tempo dopo quei momenti potevano essere rimpianti per non essere stati dedicati ad altro.

L'autore della sentenza aveva seguito il flusso di pensiero del suo interlocutore. Vicini, in silenzio, lontano dal mondo, è difficile nascondersi davvero. “Qualcuno può davvero godersi le sue pause – disse quindi riprendendo quel filo silenzioso –, godersele anche a lungo, ma non noi. Io e te è come se vivessimo sempre sdoppiati in due. Una parte di noi agisce e un'altra ci guarda, cerca l'origine di ciò che facciamo nel passato e ne proietta nel futuro le conseguenze. E' un dialogo che può regalarci anche molto, perché una delle voci sarà sempre lì a suggerirci di fare di più, di meglio o di diverso. Ma l'essere, così facendo, sarà sempre preda del divenire e la quiete, quella che ti consente di specchiare il presente in un bicchiere di vino, sarà privilegio raro”.

“Tornerai di nuovo quassù?” chiese allora chi ascoltava.

“Sì – fu la risposta a sorpresa – fosse anche per inseguire un ricordo, continuerò. Voglio restare vicino ai miei ricordi ed essere pronto a riabbracciarli appieno alla prima occasione utile. Sono troppo vecchio per pensare che una delle due voci abbia veramente ragione. E non vorrei che alla fine il rimpianto più grande diventasse davvero la rinuncia a queste pause”.

E' sempre piacevole lasciarsi con l'intenzione di rifare ciò che si è appena condiviso. Allora i due amici ne approfittarono per conservare quel piacere intatto e, senza aggiungere altro, si incamminarono sulla strada del rientro.

domenica, marzo 04, 2012

L'emergenza troppo breve

Fuori era notte inoltrata: sulle strade poche auto, nell'aria solo i rumori di qualche ubriaco che usciva dalle discoteche. La luce all'ultimo piano della palazzina però era ancora accesa. Dentro un tavolo disordinato: mappe e faldoni mescolati a cartoni di pizza e bicchieri di rum. Qua e là, sulle carte, le macchie rosso chiaro del pomodoro e quelle di colore più intenso lasciate da gocce di vino. Il grande monitor all'angolo proiettava le immagini di un vecchio film western. Erano scene senza trama, legate da un filo sottile, la cui ricerca impegnava tutti i membri del comitato, seduti disordinatamente attorno al tavolo.

Le cinque persone lì raccolte erano l'ultimo avamposto nella notte lasciato operativo dall'emergenza di una settimana intera. Le condizioni meteo erano state buone fino a quel mattino, ma le previsioni avevano da sole montato l'allerta. Erano attesi molti centimetri di neve e l'intera viabilità, la rete elettrica, quella idrica, potevano essere a rischio collasso. Le previsioni avevano circolato tra gli uffici generando reazioni diverse: alcuni ne avevano fatto un oscuro presagio, cercando di anticiparne ogni effetto, simulandone la massima magnitudine. Altri invece ne avevano ridotto l'eco, manifestando un distacco che a alcuni distendeva e a alcuni altri irritava. Tra le due compagini erano anche sorti momenti di attrito, che in più di un'occasione erano diventati veri e propri conflitti, condotti su binari autonomi, di più lungo corso probabilmente, che forse neppure partivano dalle previsioni meteorologiche.

Quella notte, attorno al comitato, il maltempo era infine arrivato. I centimetri di neve aumentavano veloci, qualche soffitto cedeva al loro peso, le strade più periferiche restavano chiuse. A tratti chi tentava invano di aprirle chiamava il comitato con il tono della tragedia: sembrava quasi che ci fosse una guerra in atto e che quella strada persa fosse un avamposto decisivo. Persone il controllo, il peggio poteva avvenire.

Nella stanza dove era riunito il comitato però il dubbio restava. La tempesta non aveva ancora svelato appieno la sua identità. Poteva essere una vera emergenza, ma nulla di veramente epocale ancora era accaduto e più le ore passavano più piccola era la probabilità che accadesse. L'attesa confondeva le idee, generava un flusso di adrenalina che non trovava sempre sfogo. Qualcosa doveva succedere, era probabile, ma non avveniva. Allora lo si provocava, quasi a sfidarlo, o meglio a dimostrare al mondo che si era pronti nel caso qualcosa infine avvenisse. Un elicottero decollava, carico solo di un sacco di mandarini per un eremita vegetariano. L'esercito muoveva i mezzi anfibi per un sopralluogo al giardino dove i bambini facevano a palle di neve. Le forze dell'ordine vigilavano gli incroci deserti per evitare che i fantasmi vi si mettessero in marcia. I membri del comitato restavano all'erta, ma più il tempo passava, più la loro veglia attenta assumeva i contorni di una farsa. Di autentico restavano solo i momenti in cui, sfiancati dalle ore, lasciavano filtrare fuori dalle loro maschere di colleghi ciò che erano abitualmente al di fuori di esse.

L'attesa nella notte fu lunga, ma non a sufficienza. Quando il telefonò ritornò a squillare al mattino, il vecchio film western senza trama proiettato nello schermo all'angolo non era ancora finito. L'attesa dell'emergenza era stata troppo breve per capire se quel topolino abbagliato dalla luce nei primi fotogrammi era davvero l'allegoria di tutto ciò che era successo dopo. Ma la normalità è così: quasi mai mantiene le promesse dell'urgenza.

domenica, gennaio 15, 2012

L'india di cui non vi parlerò troppo (4) Alla ricerca della propria Bombay quotidiana

Madras, 9 gennaio 2012

L'ultima sera ritorna il senso di responsabilità. Riaffiorano i legami con il proprio centro: la leggerezza con cui alcuni li spezzano e li riallacciano, il fardello che si portano indietro altri nel tentativo di mettervi ordine.

Si rientra in questa galassia di simboli dopo un viaggio molto lontano, che non è immediato motivare. C'è stato un paesaggio nuovo, ma non era l'unico ancora sconosciuto e più vicino altri si sarebbero distinti per maggiore cura dei dettagli, più vitalità artistica, maggiore impatto. C'è stato un viaggio narrativo – Foster, Naipaul, Pasolini, Hesse – che ha aperto piccole feritoie su un'altra civiltà, ma quei libri si potevano leggere anche in una biblioteca italiana.

Il cuore del viaggio si riduce a un percorso più materiale, alla soddisfazione di alcuni bisogni materiali di solito scontati: la ricerca di un luogo, di un tetto sotto cui dormire al suo interno, di un cibo da avvicinare con circospezione, di una comunicazione con l'altro da costruire su basi nuove, più a gesti che a parole. Coscientemente si riducono i comfort, si snelliscono i rituali quotidiani, si costringe il corpo a sudare il caldo prolungato di un interminabile viaggio in treno o a reagire al freddo di un viaggio in tuc-tuc al mattino con qualche linea di febbre. Coscientemente ancora, si percorrono strade decadenti: delimitate da edifici sgretolati, ingombrate da persone stese ai lati, attraversate da fili penduli e inquinate da centinaia di mezzi diversi. Una strada così non si contempla. Si impara ad attraversarla. Si cerca di capire se è quella giusta, senza poter contare su un cartello. E allora si cercano indizi sulla mappa, riscontri nei ricordi dei giorni precedenti, ci si inventa un dialogo con un indiano sorridente e disponibile. Si sorride all'errore, ma con la consapevolezza che è tutto vero e non è il caso di sbagliare troppo. Adrenalina.

Gli stimoli dell'India tra poche ore saranno alle spalle. Ci saranno però presto nuove città, nuove valli. Anche molte di queste non avranno forti motivi per essere avvicinate. Nessuna particolare attrazione. Proprio per questo avranno poche indicazioni per i visitatori, saranno descritte da cartine poco dettagliate. Sarà facile perdersi. E allora, anche lì a pochi chilometri da casa, si guarderà la mappa con gli amici, si interpellerà il fornaio per cercare l'imbocco di una mulattiera e, dopo aver rischiato davvero di fare troppo tardi, di sera si cementerà l'avventura con un calice di birra.

E' un po' come cercare la propria Bombay quotidiana. Non è poi così surreale.

L'india di cui non vi parlerò troppo (3) Kanyakumari: l'alba alla fine del mondo

5 Gennaio 2012

Fa già caldo, è umido, ma alle cinque è ancora buio a Kanyakumari, il punto più a sud dell'India, quello dove ogni mattina il continente saluta l'incontro di tre mari: le acque del sud, le acque del golfo d'Arabia e quelle del golfo del Bengala. Oltre la statua che domina l'estrema propaggine del promontorio non c'è più terra, fino al polo sud, nell'altro emisfero.

Gli ultimi minuti della notte tropico-equatoriale sono rotti dalle voci di una folla in marcia. Accade ogni alba. Dal centro del paese, centinaia di persone scendono verso i bastioni che si affacciano al mare. Parlano, ridono, scherzano, comprano, si lavano, fanno rumore. Si accalcano tutti sull'ultimo lembo di terra, poche centinaia di metri che col favore del buio si preparano a presentarsi al nuovo giorno come uno stadio. La luce illumina quella folla dal mare, con i raggi che sfuggono alle nuvole all'orizzonte. E la folla ricambia il saluto con boati a festa. Chi strattona il vicino, chi prende il figlio in spalla, chi cerca un centimetro per sedersi, chi scatta una fotografia, chi due, chi tre, chi chiede di scattarla al vicino.

L'uomo indiano che si alza al mattino per salutare il sole non è un solitario tenebroso alla ricerca di raccoglimento. E' una folla in marcia, che mangia, beve, si lava, si cambia, fa rumore. E' una folla materna che vigila premurosa sui curiosi intrusi dalla pelle chiara che si mischiano tra le sue fila. Un buffetto dice quando partire, un dito indica dove sedersi, una parola in inglese traduce il messaggio in hindi dell'altoparlante. La folla non concede il silenzio, ma non nega nulla dello spettacolo naturale che il suo incedere trasforma in sociale.

La folla è così vicina che i volti che la punteggiano sembrano troppo piccoli per rappresentarla. Un indiano non sembra mai abbastanza per evocare l'idea del suo popolo, della sua nazione. Nel treno che mi aveva portato a Kanyakumari da Cochi, oltre otto ore, parlo a lungo con un funzionario del governo del Kerala. Un hindu di Hyderabat in pellegrinaggio offre i suoi biscotti. Uno studente di ingegneria dipinge i suoi sogni nelle aziende straniere. Ognuno di loro parla a lungo, tutti sembrano vicini, ma poi, appena scesi dal treno, scompaiono di nuovo nella folla e le loro parole si dissolvono come se non fossero mai esistite.

La folla di Kanyakumari è la folla di ogni angolo del paese: ai bordi della ferrovia, al centro di un incrocio, dentro le acque stagnanti di un canale. E' una folla sempre attiva. Talvolta il motivo del suo agire non è chiaro, ma non c'è economia di movimento: si va, si spazza al centro di una rotonda, si pulisce un bicchiere con l'acqua di un rivolo marcescente.

E' di nuovo questa folla, con volti nuovi ma irriconoscibili, che saluterà anche domani l'alba alla fine del continente. Perché in India lo spettacolo della natura non ha un poeta che lo evoca, ma una folla che lo incita.