mercoledì, settembre 14, 2011

Toccatemi, toccatemi tutti

“Toccatemi – pensava - toccatemi tutti”. Dentro la sala faceva caldo, Walter Mladic, padre slavo, madre romagnola, sentiva quasi mancare l'aria. Il suo corpo maturo, pieno della vita che aveva sempre voluto sedurre, senza preclusioni, ora non lo aiutava: era troppo concentrato a catturare un po' di ossigeno per lasciare spazio al piacere. Sentiva il sudore scorrere sulle tempie, immaginava le sue parole smarrirsi in un intervento senza fiato. Seguiva a fatica i discorsi di chi era con lui al tavolo, due donne e tre uomini che lo introducevano: parlavano troppo a lungo, non gli piaceva. Eppure gli occhi di Mladic restavano vigili, guardavano la gente in sala; e la mente dell'artista raccoglieva le immagini di tutti i presenti e sotto voce recitava e sperava: “toccatemi, toccatemi tutti”.

Quando il respiro trovava il suo ritmo e diventava più leggero Walter Mladic riusciva ad agganciare le parole dei suoi mecenati, dei piccoli potenti che avevano riscoperto la sua pittura. Uno di loro ormai era diventato un padre, lo aveva adottato per la sua arte, per filosofie inaspettatamente in comune, e lo aveva abbracciato, accettando o forse facendo finta di non vedere i suoi difetti, le sue differenze. Era il suo padre adottivo che si rivolgeva al pubblico con il tono della voce incrinato dalla commozione. Parlava della pietas contenuta nelle tele di Mladic, dell'appello che quelle figure e quei volti lanciavano alle coscienze. Se avesse parlato dei Vangeli non avrebbe utilizzato parole diverse.

Walter Mladic però non riusciva a staccarsi dalla materialità dei propri desideri. Guardava la gente in sala e continuava a recitare e sperare: “toccatemi, toccatemi tutti”. Sussurrava come se tra lui e la gente di fronte a lui dovesse nascere un legame erotico. E un po' era così davvero. Perché a lui non interessava la pietà provata di fronte alle sue tele, ma l'attaccamento che esse stimolavano verso il loro creatore. Era quello che Walter Mladic ora fiutava nell'aria: sentiva che la gente lì attorno lo venerava e desiderava trovare conferma alla sua percezione con il calore di una mano sulla propria, di un braccio attorno al collo, di un bacio rituale trascinato un po' più a lungo.

Forse il suo padre adottivo che parlava lì vicino non avrebbe approvato i suoi pensieri. Così materiali, così poco elitari, quasi sporchi. Ma Walter Mladic li pensava lo stesso e ne godeva. Lui non era un piccolo potente, ma un senza terra, né italiano, né slavo: per infinite ironie della sorte, che quasi mai l'avevano fatto ridere davvero, non era stato mai né figlio, né padre, né professionista, né artista. Era stato sempre e solo Walter Mladic, senza nessuno dei ruoli attraverso cui le persone normali si legano, si frequentano, si amano. Ora che aveva il consenso di quella sala, ne voleva dunque approfittare fino in fondo. Forse, anzi, se aveva dipinto, era stato solo ed egoisticamente per creare quel consenso, almeno una volta.

Infine arrivò il suo turno a parlare. Cercò di attrarre a sé tutti i suoi pensieri per trovare le parole giuste, ma vi riuscì solo in parte. Guardò il suo nuovo padre che gli passava il microfono e per prenderlo gli prese la mano. Anche se camminavano per motivi diversi, lo avrebbe seguito fino in fondo al viaggio. Era di nuovo pronto a partire, come oltre sessant'anni prima, quando con lo stesso gesto, allungando la mano, scelse di seguire sua madre fino in fondo alla ricerca del suo padre biologico.

1 commento:

Adriano Maini ha detto...

Robusta storia, oserei dire di frontiera, una frontiera tutta europea.