giovedì, novembre 18, 2010

Marocco: spazi

Tangeri, appartamento n. zero
Tangeri, appartamento n. zero
Taza National Park
Taza National Park
Tetouan, cimitero ebraico
Tetouan, cimitero ebraico
Capo Spartel, casa sull'Atlantico
<br />Capo Spartel, casa sull'Atlantico

Marocco: prospettive

Tetouan: cimitero ebraico
Tetouan: cimitero ebraico
Tetouan: cimitero ebraico
Tetouan: cimitero ebraico
Fes: vicolo nel quartiere degli artigiani

Capo Spartel, la terra tra il mare e l'oceano
Capo Spartel, la terra tra il mare e l'oceano

Marocco: forme

Tangeri: scalinata della medina orientale
Tangeri: scalinata della medina orientale
Tangeri: minareto della città nuova
Tangeri: minareto della città nuova
Tetouan: cimitero ebraico
Tetouan: cimitero ebraico
Fes, piazza interna della medina

Marocco: colori

Tetouan
Tetouan
Tetouan
Tetouan
Fes
Fes

Marocco: angoli (di medina)

Tetouan
Tetouan
Fes: mercato nella medina
Fes: mercato nella medina
Fes, ragazzi sulla porta di ingresso occidentale
Fes, ragazzi sulla porta di ingresso occidentale
Fes: lavoratore alle concerie
<br />Fes: lavoratore alle concerie

mercoledì, novembre 03, 2010

Via dall'Appennino attorno a un bicchiere di rum

C'era una volta un tempo in cui ogni sabato, ogni domenica, ogni giorno libero salivo in Appennino, nelle montagne di casa mia, per vivere l'eccitazione della scoperta. Ricordo quanto succedeva, sempre lo stesso, sempre emozionante. Rientravo in tarda serata da Bologna, per me allora il luogo del lavoro, della responsabilità e dell'inquietudine sociale, e mi fermavo nelle città della Romagna per bagnare in una birra i progetti per la camminata del giorno successivo. Eravamo in tre o quattro, sempre gli stessi, restii ad aprire le porte ad altri, perché in quell'alta collina che non è ancora montagna vedevamo un territorio elitario composto da un codice che solo noi potevamo interpretare, che solo noi potevamo meritare appieno. Esausto, la notte prima di dormire, chiudevo nello zaino il simulacro di casa con cui il giorno dopo avrei affrontato la mia avventura di scoperta: il minimo indispensabile per non avere paura del meteo, che noi, allora, ignoravamo. Poi al mattino suonava la sveglia, si saliva in auto, ci si fermava al bar per la seconda colazione, quella del piacere dopo quella della necessità. E infine si lasciava il mondo alle spalle. Ci si avvicinava al crinale, ci si scambiava qualche battuta per sancire una volta di più quel patrimonio di simboli e di confidenze che ci teneva uniti e poi si cominciava a camminare e parlare, parlare e camminare. Camminavamo e parlavamo per ore, perché per noi quella ero il luogo del sogno, delle utopie, delle possibilità senza limiti, un paesaggio dolce, privo di elementi troppo invadenti, dove noi riversavamo le identità creative coltivate segretamente nei giorni cittadini. E poi c'era lo stupore. Anni di studio, al liceo o all'università, non mi avevano mai raccontato niente sulle montagne di casa mia ed entrare in esse mi dava l'ebbrezza della scoperta. Nei brevi dialoghi di un incontro fortuito leggevo le punte di un universo di saperi e costumi rimasto inalterato. Nel nome di un luogo vedevo lo spunto per avviare una ricerca bibliografica. Nell'interpretazione di un bivio vivevo il piacere di ritrovare quello spazio su di una cartina e di ricomporlo attraverso di essa alle altre esperienze di cammino mio e dei mie compagni di marcia.

Ora che, con fermezza e cocciutaggine, ho trasformato quei monti nel mio luogo di lavoro, il paesaggio dello stupore si è trasformato nel territorio dell'ansia. Avevo sognato che il mio mondo d'Appennino fosse popolato da una società di persone tutte simili a quelle quattro o cinque con cui ne avevo iniziato la scoperta. E invece quelle quattro cinque persone erano un'isola e, ci rifletto solo oggi, nessuna di esse era cresciuta in Appennino, rispettandone in via esclusiva abitudini e aspettative. Avevo pensato che un casolare isolato potesse essere la cornice ideale per una sperimentazione sociale e culturale, mentre, proprio per il suo isolamento, esso soffre dello scetticismo dei pochi che lo circondano da vicino e della lontananza di chi lo potrebbe interpretare secondo la tua stessa utopia. E, infine, ci sono io, che sono diverso. Non più un viandante, con il privilegio dell'anonimato, ma una persona nota, investita anche di un certo potere simbolico. Una persona così non si ascolta. A una persona così si chiede. Si chiedono risposte precise: soluzioni razionali che rendano il desiderio di chi chiede sostenibile dalla comunità che lo deve accogliere.

Dopo alcuni giorni a casa, nessuno dei quali trascorso camminando in Appennino, tra poche ore partirò per il Marocco. E, nell'attesa di un luogo che mi riconsegni il privilegio dell'anonimato e dell'ignoranza, sorrido alle coincidenze. Poche settimane fa, in una giornata mantovana nata per caso, vidi un amico acquistare Tristi Tropici di Levy Strauss. Dopo pochi giorni (e diversi anni lontano dall'antropologia) l'ho acquistato anch'io e ora parto con la sua domanda, elaborata in Brasile attorno a un bicchiere di rum. “Come può l'etnografo salvarsi dalle contraddizione che risulta dalle circostanze della sua scelta? Egli ha sotto gli occhi, e a sua disposizione, una società, la sua; perché decide di ripudiarla e di dedicare ad altre società – scelte fra le più lontane e le più diverse – una pazienza e una devozione che la sua decisione nega ai suoi concittadini?”.