martedì, ottobre 19, 2010

Castel d'Alfero: alcuni passi, qualche chilometro, come se non esistesse

La strada, già stretta, si restringe ancora. Sale conficcata tra le lastre di arenaria, seguendo le curve della montagna. Tutto attorno alberi e campi che, a ottobre, la sera, si confondono in una nebbia appiattente. Un cartello scritto a mano sulla sinistra indica Quarto. Forse la valle è vicina, ma così non appare. A fianco di un campanile, poco di fronte a me, un signore cammina con il suo cane: veste stivali di plastica, pantaloni sporchi, maglione grosso. Ha un aspetto più balcanico che romagnolo. Non è romagnolo. E' di lì, di quella terra in mezzo ai monti, poche case, molti orizzonti.
“Castel d'Alfero è più indietro?”, domando. “Per caso lì dove c'era un cartello giallo con la scritta santuario?”.
“Quello è Castel d'Alfero” risponde lui. Non aggiunge altro e prosegue verso un recinto semi aperto.
Giro l'auto: di nuovo non ho la sensazione di lasciarmi indietro la Romagna orientale ma la Serbia centrale. Ritorno sui mie passi, vicino al cane che guarda ma non abbaia.
Parcheggio qualche chilometro oltre, a fianco di una catasta di porfido. Lì sulla sinistra vedo finalmente Castel d'Alfero. Lascio l'auto e imbocco la mulattiera che si insinua tra il vecchio borgo diroccato, un enclave di Sarsina nel vergheretino. Nei capitelli intravedo i simboli delle maestranze del cinquecento che eressero quei muri in pietra. Se sono lì è soprattutto perché ho sentito parlare di loro: mi hanno incuriosito.
Contro il tempo che avanza trascinato dall'oscurità continuo a camminare tra le spettro di case che furono. La strada è già un po' lontana. Alfero a qualche chilometro. Il resto, lì, è come se non esistesse.

lunedì, ottobre 11, 2010

Il massaggio

Ascolto, raccolto, i piacevoli segnali che mi inviano i miei piedi e le mie caviglie, mentre mani amorevoli seguono vuoti e protuberanze delle articolazioni, cuscinetti di carne e spigoli ossei. Ogni cellula del mio corpo sembra accogliere con gioia quel movimento particolare che nasce senza sforzo, perché la fatica di produrlo è tutta nelle mani di chi con i suoi movimenti si accolla lo sforzo di scrollare dalla mente le sue preoccupazioni.

Scivolo silenzioso nel nocciolo dei miei pensieri e, preda del mio non perdonabile solipsismo, cerco di risolvere in un monologo le alchimie policentriche che regolano l'amore tra due persone, un dialogo per eccellenza. Quello che ricevo è un dono: un flusso che non pretende ritorno, di affetto, desiderio, tenerezza, passione, tatto, calore e, soprattutto, di tempo, scelto di vivere al mio fianco anche lì in quel momento qualunque in cui sono solo uno panno stropicciato dalle fatiche del giorno.

E' questo dono che si chiama amore? E da dove viene, da una generazione spontanea dell'inconscio o da una costruzione quotidiana? Può solo nascere perfetto nel suo primo giorno o è una forma che si plasma con piccoli ritocchi giorno dopo giorno? E se così è, se ci vuole un impegno costante, si può ritenere un amore puro solo quello che è frutto di un impegno sempre piacevole o è lecita anche la tenacia che aggira le difficoltà?

Mentre le mani di chi mi ama continuano a iniettarmi la vita, penso piano, per non disturbare, per non offendere. Forse infatti quelle mani che non chiedono nulla, non sarebbero felici di essere oggetto di tante domande. Sono un dono e un dono desidera solo essere accettato come un'aggiunta che nulla toglie.