domenica, gennaio 18, 2009

Monologhi riflessivi

Spesso sostengo lunghe conversazioni con me stesso e sono così intelligente che a volte non capisco nemmeno una parola di quello che dico.
(Oscar Wilde)

Mi sbagliavo. Non è mentire a se stessi il vero problema. Il vero problema è un altro. La cosa peggiore è non poter più essere sinceri con se stessi. E’ diverso: non accade quando, coscientemente, ci si racconta qualcosa di falso o di edulcolorato. Accade quando il confine tra la realtà e la propria rappresentazione di essa va perso, quando si cerca la semplicità dell’idea originaria, ma si trovano solo i racconti costruiti nel tempo per condividere quell’idea.

Sembrano tutte frasi così difficili, gelidi alambicchi cerebrali frutto di una mente troppo abituata a pensare a se stessa. E invece. Invece è proprio il contrario. E’ l’eccesso di pratica che fa perdere il filo del discorso: ogni piccolo passo richiede così tanta attenzione, così tanta fatica che alla fine si china la testa, si guarda il dettaglio e si perde la via.

E’ cosa da un attimo, ma rimane lì con voi per sempre. Vi farà compagnia anche quando tenterete di isolarvi dal rumore da voi prodotto per il resto del mondo; starà lì con voi fino ad assorbire interamente il vostro tentativo di monologo. Il vostro sarà un monologo sul monologo: parlerete con voi stessi della voce che vi impedisce di farlo con sincerità.

Non vi resterà che scrivere. Il dialogo con la carta a volte riserva risposte più convincenti di quello con le idee.

sabato, gennaio 17, 2009

Per quell’ora non c’è storia

La pioggia non diventa neve, ma nelle fessure del selciato un ghiaccio sporco, di lunga data, continua a rendere scivolosa la notte. L’umidità cade dal cielo trascinandosi a terra anche la luce dei lampioni: la via è buia, deserta, silenziosa, spezzata in due dal rivolo d’acqua che l’attraversa e che si allarga qua e là conquistando lo spazio delle pietre mancanti.

All’ombra della chiesa, al centro della piazza, c’è un tendone. Disegna uno scheletro bianco di lamiera sulla luce gialla della taverna all’angolo. Dai vetri appannati filtrano le bestemmie di chi gioca a carte. Dentro solo uomini. Fuori un piccolo capannello di donne che sputa fumo, rancore e invidia.

L’orologio, in cima alla torre, accompagna più lentamente del solito la strada, la notte, lo scheletro bianco e l’osteria. Su in alto, da solo, non batte, non suona, quasi non si vede. Sembra fermo, in attesa di un momento migliore per ripartire. Per quell’ora non c’è storia.

lunedì, gennaio 12, 2009

Il vecchio e il passante

L’uomo sedeva sul masso a fianco della maestà che anticipava l’inizio del borgo. Con lo sguardo appoggiato al ciglio della strada, stava lì, immobile, come la corteccia della quercia a cui rubava l’ombra. Si notava appena, ma lo notavano tutti. Aveva i colori di una vecchia foto: sempre curiosa, sempre interessante, sempre attraente per il solo fatto di continuare a esistere.

Il vecchio Pietro non parlava quasi mai con la gente del paese. Per la sua memoria preferiva una solitudine nobile a una compagnia compassionevole. Avrebbe potuto cercare un dialogo vero, ma, da tempo, aveva abbandonato quella speranza: chi l’ascoltava non riusciva a ricordare e chi poteva ricordare non aveva voglia di riascoltare.

Quando il camminatore forestiero lo vide, Pietro era immobile come sempre. Lo notò come una macchia di colore: il grigio della barba e dei capelli tra il verde impolverato delle foglie. Impiegò diversi minuti per raggiungerlo e metterlo a fuoco, ma decise subito di parlargli. Se era lì a piedi era anche per quell’uomo solitario e trasandato: per iniettarsi nelle orecchie gli scampoli di delirio e di memoria che uomini come quelli potevano ritagliare dal loro vissuto e dal loro immaginato.

Anche Pietro capì che lo straniero gli avrebbe parlato molto prima di sentire la sua voce. Nel tempo che ne ebbe coscienza prima di udirla, chiamò a raccolta tutti i pensieri che lo sconosciuto avrebbe voluto ricevere in dono: pensò al soldato tedesco morto ucciso nella camera della madre; pensò alla moglie del padrone con cui aveva fatto l’amore nel giardino della villa; pensò alle randellate mollate e prese durante gli scioperi del contado; e pensò a tutte le trascurabili vicende che nel calore di un focolare e nel rosso di un bicchiere di vino avevano poi assunto la dignità di un fatto da ricordare. Pensò soprattutto a questo lungo elenco. Vi pensò fino a quando lo straniero fu così vicino da potergli parlare.

I loro sguardi – quello fisso del vecchio e quello felino del viandante – si incrociarono, entrambi alla ricerca della scintilla per dar fuoco alla parola. E l’aria non tardò a scaldarsi di voci: il vecchio si mosse e il giovane si fermò. Il primo soffiò via la polvere da tutto il suo passato; il secondo descrisse luoghi sempre più lontani fino ad abbracciare il mondo intero. Avvenne tutto come i due avevano immaginato che dovesse accadere. Il vecchio recitò la sua parte; il viaggiatore credette di essere protagonista della propria.

Infine Pietro accomiatò lo straniero. “Ora proseguo il mio cammino” gli disse sedendosi.
Il viaggiatore lo guardò interrogativo.
“Ti sono piaciuti i miei racconti?” chiese il vecchio.
“Certo” replicò il viaggiatore. “Se sono arrivato fino a qui è soprattutto per ascoltare persone come te: alla periferia, autentiche”.
“Continua a divertirti allora, ma senza mai dimenticarti che è tutto falso, anche qui: le mie storie sono false, come quelle che sai essere false a casa tua. Solo che qui non puoi saperlo e ti consoli nel piacere dell’illusione. La vita non è un cammino, la vita è un racconto. Accade poco, ma se ne dice di tutto ed è molto piacevole farlo”.
Il vecchio si schiarì la gola e tornò nella posizione esatta in cui il viaggiatore l’aveva visto per la prima volta poco tempo prima. “Lasciami solo adesso – grugnì quasi maleducato – altrimenti rischio di non aver tempo a sufficienza per camminare nella mia memoria e costruire nuove storie per il prossimo straniero”.