mercoledì, dicembre 23, 2009

Le ragioni di Simon, in fondo al gruppo

Da ore Carl Simon teneva lo sguardo basso. Uardava rimbalzare a terra la pioggia che cadeva da ore. Guardava le scarpe fradice di chi muoveva i piedi davanti a lui. Guardava quelle cadenze ritmante – dell’acqua e dei piedi – per trattenere i pensieri. Ma non sapeva nulla. La mente del giovane allievo americano volava sulle teste di tutti i membri della comitiva e si appoggiava, in testa, sulle spalle di Ludwig von Nierentoff, la canuta guida austriaca che aveva scelto l’itinerario.

Aveva scelto il percorso più lungo: lo conosceva, era sicuro, l’aveva sempre fatto, ogni alternativa era fuori discussione. Anche se le previsioni erano pessime, anche se il cielo permetteva solo diluvio a chi fosse stato sotto di lui nel pomeriggio.

Simon pensava a Nierentoff ma odiava se stesso. La sera prima, lui aveva pensato l’alternativa: una scorciatoia rettilinea tra sé e la meta, un tragitto in mezzo ai picchi della forcella centrale, una via impegnativa ma rapida. L’aveva proposto, ma non se l’era sentita fino in fondo di imporsi. Nierentoff l’aveva schernito acidamente con la forza della regola dettata dall’esperienza e lui aveva ritenuto opportuno tacere, non scivolare oltre, non trasformare l’irrequietezza della sua alternativa mai praticata in un cieco, presuntuoso e irruente attacco a ciò che era stato. Aveva alzato lo sguardo con l’energia di chi difende un proprio diritto, ma l’aveva abbassato con il pudore di chi teme di violare il giusto rispetto. Aveva desiderato dimostrarsi tenace, ma aveva temuto di rivelarsi testardo.

Nell’eco dell’acqua che cade a terra e dei piedi che calpestano il fango, ora si diceva che aveva sbagliato. Con la mente che volava in cima al gruppo sulle spalle di von Nierentoff si ripeteva ossessivamente: “Ho sbagliato, ho sbagliato, ho sbagliato di nuovo”. Ed era proprio questo che temeva e lo turbava. Solo le persone insicure delle proprie ragioni, si ripetevano così tante volte ciò di cui neppure loro erano fino in fondo davvero convinte.

E il gruppo continuava a procedere sulla via più lunga.

martedì, dicembre 22, 2009

La macchinina e la ninna nanna

“Ssshh” fece la nonna chinandosi sul nipotino. Gli carezzò la testa, cercando di rubare con la mano l’euforia e l’agitazione che non facevano dormire il ragazzino. Ma non era una notte da sonno quella, non per lui. Di giorno era arrivata una macchinina nuova. E con lei una fantasia senza limiti.

Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava: l’avrebbe fatta vedere a Marco e poi a Daniela e dopo a scuola – in fondo non era così male tornarci – e dopo ancora a chissà quanti altri. Chissà cosa avrebbero raccontato facendogliela vedere: la sua fantasia era un treno. Chissà cosa avrebbero risposto gli altri ragazzi: la nuova macchinina era un pezzo pregiato, non passava inosservato.

Il ragazzino pensava, parlava, diceva, sognava, a volte a voce alta, e la nonna catturava i suoi pensieri e la sua gioia. Allora lo guardava con tenerezza. E con timore: qualcuno avrebbe potuto invidiare quella macchinina, qualcuno avrebbe potuto invidiare chi la possedeva e cercare di metterlo in cattiva luce con Marco e poi con Daniela e dopo a scuola – sarebbe stato ancora più difficile andarci – e dopo ancora con chissà quanti altri.

La mamma pensava ma non parlava. Non voleva rubare il tempo a ciò che il tempo rubava di per sé. E allora sussurrava e, nella luce bassa della sera, cantava le ninna nanna con le verità così piccole da non cambiavano mai.

lunedì, dicembre 21, 2009

Parola di water

(citato al bagno della pasticceria di Castrocaro Terme)

“Se dopo avermi usato non mi pulisci,
pensa se incontri qualcuno mentre esci.
Io sarò ripulito mentre tu per lui rimarrai sempre sporco”.


Il water

martedì, dicembre 08, 2009

Il consulente paroliere e l’ansia del desiderio e del dovere

Serata insonne. E’ una di quelle che capita quando l’ansia di svegliarsi presto il mattino successivo ruba anche le poche ore a disposizione. Ogni forma di tempo ti sottrae un po’ di forze: il giorno passato che è finito solo molto tardi; il presente irrequieto che non ti fa riposare; e il giorno che viene, con la minaccia di non farti nessuno sconto sulle fatiche che non hai smaltito. Passato, presente e futuro come in un unico blocco che dondola nella testa ogni volta che cambi posizione sul letto.

E’ allora che mi arrivano i pensieri più vivaci e assurdi – dissi al mio consulente paroliere – quelli a cui non riesco a dare forma scritta anche se la meriterebbero più di altri”. Il consulente paroliere rispose conciliante come suo solito: “Eh, beh, certo, è così, è normale che sia così. E’ nel limbo dell’inconscio che emergono le verità più vere, ma anche più difficili da raccontare”.

Ascoltai quelle parole con il solito piacere. Non avevo ancora esattamente capito perché quel professorino mi avesse preso in custodia filosofica-esistenzial-letteraria – per paternità surrogata, vocazione didattica insaziabile, semplice simpatia o altro – certo era che avere uno specchio in cui riflettere in maniera mediata il mio gomitolo di pensieri e di racconti mi faceva un gran piacere. Srotolare quel gomitolo e darlo in pasto alle orecchie altrui mi dava l’ebbrezza di provare le sensazioni di uno scrittore vero o, almeno, di qualcosa di molto simile.

Conclusi quel lungo filo di considerazioni molto rapidamente, quasi stupendomi della mole di idee e contro-idee, al limite del machiavellico, che riuscivo a stipare negli istanti morti delle conversazioni. Era un micro-mondo che una volta ignoravo e ora mi era diventato strategicamente familiare. Uscii da quel mondo e aggiunsi: “Credo anche, in verità, di iniziare a conoscere ciò che separa la storia perfetta che sfioro nel dormiveglia da quelle un po’ monche che riverso sulla carta”.

Non ebbi risposta dal mio consulente paroliere e per un attimo mi fermai, di fronte al solito bivio: esternare una sentenza “clamorosa” che ti poteva far passare o per una sottile mente profonda o per un grosso e piatto presuntuoso. Cincischiai per qualche istante e poi, scimmiottando la sicurezza che in realtà non avevo, cercai di proseguire attivando l’opzione uno: “sottile mente profonda”.

Credo – aggiunsi – che nel mio inconscio segua solo la fantasia e il desiderio, mentre sulla carta finiscono anche il realismo e il senso del dovere. Di notte, nell’insonnia, parlo, o vaneggio, solo per me, mentre di giorno, sulla carta, scrivo, o ragiono, per tutti i “me” che gli altri credono e pretendono che io sia”.

Il mio consulente paroliere interruppe il suo cammino, infilò una mano nell’abbottonatura del giubbotto e, serio, mi chiese se avevo già studiato qualcosa per ripulire la carta dalle interferenze del dovere e della società. Il consulente insomma aveva seguito e capito le mie parole e non sembrava minimamente aver pensato alla opzione due: “grosso e piatto presuntuoso”. E, dunque, se tutto quello che avevo detto aveva un senso, dovevo assolutamente andare oltre, perché forse, anzi probabilmente, ero nella direzione giusta.

Solo che – maledizione! – sapevo muovermi ben poco oltre. “Non ci ho ancora pensato” risposi trafelato. “E’ che è un po’ come dice Ann Deveria… non si può ripulire il desiderio dal dovere senza farsi male”.

Non dissi altro, ma ci avrei lavorato su, nelle notti insonni, quando l’ansia di ciò che avrei scritto sarebbe stata ancora maggiore dell’ansia di doversi svegliare presto.

domenica, novembre 22, 2009

Il ponte tra Ravenna e Santa Caterina

Alzai lo sguardo verso l’alto, verso la volta musiva della basilica di San Vitale a Ravenna. Non per la prima volta in assoluto, questo no, ma per la prima volta alla ricerca di un frammento di me stesso dal recente passato. Fissai gli occhi del Cristo e la memoria fece riaffiorare le parole che l’egittologo John mi aveva detto al Cairo la sera prima della mia partenza per il Monastero di Santa Caterina nel Sinai. “Le icone – mi disse John allora con un Macintosh surrealmente adagiato di fronte al piatto – non sono fatte per essere guardate, ma per guardare. Sono lì ferme, immobili, stilizzate: completamente irrealistiche ma altrettanto penetranti. Finché sono sole non dicono nulla, ma, prova a guardarle, prova a fissare il loro sguardo che non si abbassa mai, e allora diventeranno porte per un viaggio infinito. Le icone non dovevano decorare; dovevano dialogare, essere specchio dell’anima e finestra sulla perfezione del divino”.

Rimasi immobile sotto quegli occhi costantemente aperti e mi chiesi come fosse possibile che non l’avessi mai notato prima. Ma fu solo il disappunto di un momento. Ero stato lontano, avevo ascoltate parole straniere e ora ero lì, a pochi passi da casa mia, e la compagnia di quei ricordi si fondeva con la conoscenza di me e della mia terra.

Sentii l’inevitabile piacere di qualcosa che si univa. Era come se lo vedessi: due ricordi destinati a perdersi erano ora uniti da un ponte che li avrebbe sorretti entrambi. Prima erano deboli e solinghi; ora erano forti e spavaldi. Semplice, efficace, immensamente piacevole.

Abbassai gli occhi sulla persona che stava in piedi con me sotto la cupola.
“Ti è venuto in mente qualche lunga storia da scrivere?” mi chiese con il tono di chi ha voglia di piacere e sa come farlo.
“Non esattamente” risposi un po’ furbetto, con il tono di chi finge di conoscere le regole del gioco, ma ha in realtà tanta voglia di starci, al gioco, e di scoprire le sue carte al mondo intero.

“Non esattamente” ripresi. Poi, appesantito dal mistero, ma anche conscio del suo fascino, risposi sibillino: “In realtà, sì, avrei voglia di scrivere come non mai, ma solo una storia non semplice, la storia che unirebbe me e il mondo come il ponte tra i mosaici di Ravenna e di Santa Caterina”.

martedì, novembre 03, 2009

Passaggio di fronte al rudere dalla memoria roca

C’è un rudere nascosto in una corona di colori autunnali di un bosco dalle tinte orride. E ci sono gruppi di persone che sfiorano quelle pietre dalla memoria ormai roca, incapace di farsi sentire forte. E ci sei tu che, volontariamente seduto più lontano, osservi i gruppi che passano e i loro occhi che guardano il rudere e la sua memoria roca.

Passa il gruppetto dei ragazzi che corrono verso il futuro. Lo portano scritto negli abiti all’ultimo grido, nella tecnologia che li lascia mai veramente dove sono. Li vedi, i loro sguardi. Sono di sfida e compassione. Dicono che loro da quel rudere pietoso non torneranno più: se ne andranno più lontani possibile.

Passa il gruppetto che segue la donna con la bandierina che parla al microfono senza guardarsi indietro. Loro, il rudere, non lo vedono. Vedono solo ciò che la guida dice loro di vedere. “Salite su quella pietra: di lassù le foto vengono bellissime”.

Passa poi il gruppetto che viene dalla città vicina. Lo senti prima che arrivi, dall’accento familiare ma non troppo. Nessuno ci ha mai vissuto nel rudere o nei suoi fratelli ormai macerie né nessuno lo farà mai, ma puntuale qualcuno vagheggia di trasferirvisi.

L’attendi, infine, ma non passa il residente. Poco lontano dal rudere ci vive, ma non ci va mai. Troppo vicino per raccontare un viaggio che qualcuno ascolti, troppo lontano per essere raggiunto con la passeggiata della sera.

E poi ci sei tu che guardi tutti i gruppi che passano. Non solo senza un sottile e tagliente sarcasmo. Tu hai già studiato tutti quei comportamenti superficiali. Hai letto le parole di chi li ha descritti e hai anche ascoltato chi ha suggerito il modo giusto per riappropriarsi di quel rudere e del suo paesaggio in modo concreto e simbolico. Per questo ti sei messo seduto più lontano e hai lasciato corda libera alla deriva dei significati del luogo e delle letture che li hanno alimentati.

Passa però uno spazio così ampio tra il mondo e i simboli con cui lo leggi che ti chiedi se in realtà anch’essi non siano finti e artificiosi, se anch’essi servano a qualcosa o a nessuno, né a te che vi rimani intrappolato, né ai gruppetti di passaggio che non li comprendono, né al rudere la cui memoria rimane roca.

venerdì, ottobre 23, 2009

L’antica Tebe e il cellulare del marinaio Hacmed

Il sole che tramonta spinge gli ultimi raggi sull’antica Tebe e le colonne del tempio di Luxor intrecciano le loro ombre, sempre più lunghe. Mi siedo su una panchina nella sponda orientale del Nilo e con il teleobiettivo cerco il volto di un bambino che tiene in mano le redini di un calesse, di un ragazzo che corre tra le rovine del tempio di un vecchio che urla dal finestrino di un minibus.

Cerco di isolarmi in uno spazio tutto mio, ma non si è mai veramente soli nelle sponde del Nilo.
“Hello my friend” mi dice una voce da dietro le spalle. E’ un ragazzo, anzi no ha qualche capello bianco che lo fa già uomo. Ha i sandali, l’abito lungo, la carnagione scura. E’ un marinaio. “Un giro in feluca nel Nilo, un’ora, non costa quasi nulla”.
“Tra poco parto” gli dico nascondendomi dietro l’obiettivo.
“Allora una mezz’ora, per dire arrivederci al fiume della vita”.
“Non mi va di correre”.
Silenzio. Strano. In Egitto la contrattazione non si ferma mai.
“Sono stanco signore” mi dice mentre lo credevo già lontano. “E’ da troppo che parlo con i turisti. Ho bisogno di un tè. Vuoi essere ospite della mia barca?”.
“Ti ho detto che non farò un giro in barca” gli rispondo ancora, questa volta guardandolo in faccia.
“Solo per il tè, un tè sul Nilo” ripete lui.
Resto scettico. “Sicuro che non insisterai tutto il tempo per vendermi un giro?” lo incalzo.
“Sicuro. Solo un tè. Io non modificherò l’accordo. Se lo farai tu, ne sarò felice, la mia famiglia te ne sarà grata. Ma io non modificherò l’accordo”.
“Mi chiamo Hacmed” dice lui allungando la mano.
“Silvio” gli rispondo ricambiando il gesto.

La feluca di Hacmed è ormeggiata a pochi passi, in una giungla di corde e alberi maestri, di giovani apprendisti marinai che corrono su stretti passaggi in legno che scricchiolano senza però cedere. Mi siedo a poppa tra piccoli tappeti umidi. Hacmed invece si inginocchia a prua: è lì, in una piccola coperta, che si trova la cucina. Un fornello a gas, qualche fiammifero, una giumella deformata dal calore e un sacchetto di fiori rossi, fiori di ibisco. Hacmed tuffa la giumella nel Nilo: “L’acqua bollirà – mi dice – non ti farà niente”.

Poco dopo una bevanda rossiccia dondola in bicchieri trasparenti seguendo le onde del Nilo. Hacmed dice che la sua barca può contenere fino a otto persone per una crociera sul Nilo. Ha alcune assi che lo aiutano a costruire un unico piano, dove la notte si può dormire tra il verde delle acque e il nero del cielo. “C’è un unico pericolo” racconta. “Alcuni pescatori la notte si avvicinano alla feluca e derubano i turisti dei loro piccoli oggetti”. “Per questo – aggiunge – io la notte non dormo mai”.

E’ già buio quando Hacmed finisce di descrivermi la sua famiglia. Una sorella giovanissima, ancora da sposare. Una sorella più grande, con tre figli, lasciata sola dal marito, ma in grado di mantenersi da sola con piccoli oggetti di sartoria che vende al bazar. Il fratello maggiore, per un lui un padre, ma ormai lontano, in Norvegia, con la moglie.
“Per me è ora di rientrare” gli dico.
“In che hotel alloggi?” mi chiede lui.
“Al piccolo El Gezira – rispondo – sulla sponda occidentale”.
Sorride. “Lo conosco bene – racconta -. E’ stato il primo hotel di quella sponda. Vivo proprio lì dietro. E’ come se fossimo vicini di casa. Come rientri?”.
“Col traghetto. Recupero la bici e poi attraverso il Nilo in traghetto”.
“Allora possiamo rientrare assieme. Così ti aiuto a far scendere la bici fino alle sponde del Nilo”.

La sponda ovest dell’antica Tebe resta ancora un villaggio. Sopra l’attracco del traghetto c’è un campo da calcetto, dove i giovani abitanti di Luxor rincorrono il pallone fino a notte fonda. Un’unica strada penetra nei campi coltivati fino a raggiungere i giganti di Memnone e le tombe della Valle dei Re. Ai bordi della carreggiata, una miriade di basse abitazioni in terra che disegnano intricate geometrie di viottoli e cortili. Hacmed abita con le sue sorelle e i suoi nipoti in una delle abitazioni più grandi: “Mia madre – spiega – non ha mai voluto vendere. Qui il terreno costa caro e molti lo volevano, ma lei si è sempre rifiutata. Diceva che questo sarebbe stato il cortile per i suoi figli e i suoi nipoti”. Da quel cortile Hacmed esce ogni mattina per approdare alla sponda orientale e cercare di sovrastare con la sua voce la voce degli altri marinai di feluca. Torna per il pranzo e poi di nuovo via a gridare fino a sera. Quando fa tardi alla notte rimane a casa, ma lo fa poche volte. “Mi piace attraversare il fiume e immergermi nel caos. Anche quando non raccolgo nulla, mi sento utile per la mia famiglia e mi sento vivo. Bisogna vedere un po’ di vita per sentirsi vivi”.
Si rivolge alla sorella in arabo e questa porta tre limonate fresche con lo zucchero. Una per Hacmed, una per me e una per la bambina più piccola. La spremuta è quasi cremosa. “Mia sorella la prepara come nessun altro”.

Tutti sediamo su panchine in legno, tra muri bassi e rovinati. C’è poca luce e poca acqua. Ma i cellulari brillano in quel mondo come e più che altrove. Mi mostra il suo, con un grande schermo, e mi invita a guardare la danza frenetica della festa in occasione del matrimonio della cugina. “Se vuoi te lo invio” mi chiede.
“Il mio cellulare non consente di vedere i video” gli rispondo.

Il muezzin chiama alla preghiera dalla vetta del Minareto. Hacmed si dirige verso la moschea, io verso il volo che mi riporterà tra i ventiquattro milioni di abitanti del Cairo.

Hacmed non hai mai fatto quel volo e forse non lo farà mai come tanti altri abitanti dell’antica Tebe. Ma con lui c’è quel cellulare supertecnologico. Il marinaio Hacmed lo guarda come il soldato di Buzzati guarda il deserto e aspetta che lì, sul grande monitor, si affaccino i Tartari. Il cellulare è legato alla grande rete, al tutto. Da lì forse un giorno uscirà una voce e la sua vita cambierà per sempre.

Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili

Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili
Cairo: per le strade di Khan Al-Khalili

Cairo: sfingi e piramidi

Menfi:sfinge
Giza: sfinge
Giza: piramidi

Cairo: la Moschea di Mohammed Ali

cairo: moschea di Mohammed Ali
cairo: moschea di Mohammed Ali

Antica Tebe: vita sulle sponde del Nilo

Nilo: tramonto sull'antica Tebe
Nilo: giovane calessiere
Nilo: feluche ormeggiate al tramonto

Antica Tebe: templi di Karmak e Hatshepsut

Tempio di deir Hatshepsut
Tempio di Karmak: sala ipostila
Tempio di Karmak: sala ipostila
Tempio di Karmak: ingresso

Deserto del Sinai: montagne e cammellieri

Deserto del Sinai
Deserto del Sinai: cammelliere
Deserto del Sinai: cammelliere

domenica, ottobre 11, 2009

Il cubo nel diario segreto

Per essere del tutto sincera, Ada lo scrisse solo sul diario segreto. Si tirò la coperta fin sulle orecchie e, su pagine che affondavano nel materasso, portò sulla carta i pensieri che erano sbocciati nel dormiveglia.

Non ne era ancora sicura, ma, nel torpore dell’alba, le era sembrato di rivedere la scatola nera dai contorni scivolosi. Era lo spettro con cui le si facevano incontro le situazioni più difficili: i dilemmi irrisolvibili, le scelte di fronte a cui si trovava del tutto sola, senza mai avere la possibilità di sfogare la tensione nella comprensione altrui. Ada vedeva la scatola scura: lei dentro, le pareti scivolose, il nero più nero della notte, la fine profonda come l’abisso, il respiro affannoso di chi perde la lucidità.

C’era già finita due volte, la ragazza, dentro a quel cubo. Un po’ per i casi della vita, un po’ per la sua vita, dove ogni tanto succedevano cose che si sentiva a disagio a condividere. Le sembrava che fuori da se stessa potesse trovare solo ostilità e allora spegneva le ultime luci e si trovava dentro la scatola. E del resto era solo lì, nel fondo e nel buio più totale, che riusciva infine a iniziare la risalita dall’unico, stretto, ripido e accidentato, sentiero che conduceva al rifugio desiderato.

Seminò questi suoi pensieri in appunti sparsi, poi abbozzò il disegno di un cubo e scrisse in caratteri eleganti il nome di Eschilo, perché le sembrava di essere la protagonista di una tragedia greca, stupidamente intrappolata in due realtà inconciliabili. In una pagina bianca tracciò ancora qualche scarabocchio. Infine chiuse il tutto e, accennando un sorriso, scacciò le coperte. Lì sotto si poteva vedere meglio, ma non era lì, nel loro ipocrita abbraccio, che partiva il sentiero che usciva dal cubo.

domenica, settembre 27, 2009

Il ritardo

Resto appoggiato per un po’ al palo di un’insegna stradale. Mentre aspetto il gruppo a cui mi unirò per la serata, scorro casualmente i numeri della rubrica sul cellulare. Non me ne interessa nessuno in particolare in quel momento, ma mi sento in dovere di impegnarmi in qualcosa. Si osserva sempre con sospetto una persona ferma in uno spazio pubblico senza ragione. Meglio non apparire tali, meglio non dimostrarsi troppo a proprio agio e dare adito ad ancora maggiori sospetti. Meglio maneggiare il cellulare e rendere evidente l’attesa di qualcosa e l’inquietudine per il suo ritardo.

Pochi minuti il gruppo arriva. Il telefono può tornare in tasca e la spalla può allontanarsi dal palo. E’ tutto a posto, ora, non serve più nessun aggancio per sostenere la propria presenza lì.

Quando è già tutto un vociare e un rumore di sportelli che si aprono e si chiudono, ripenso agli attimi precedenti. Forse tutte le elucubrazioni fatte per giustificare la mia sosta vicino al cartello erano un po’ eccessive. A chi poteva interessare in fondo? Solo io dovevo avere quei pensieri in testa, nessun altro. Alla prossima occasione – mi riprometto – siederò più tranquillo, alzando gli occhi per curiosare tra la gente della via. Ma sono dubbioso sulla bontà dei miei propositi. So già che quelle stupidi inquietudini sociali sono proprio quanto a cui non mi decido mai a mettere mano.

domenica, agosto 23, 2009

La doccia

Arriva il giorno successivo. E la doccia come un rito purificatorio dopo il risveglio. L’acqua che scende sprigiona dalla pelle gli odori di ciò che è stato prima del sonno. Si alzano d’improvviso, con un’intensità penetrante, profumi che evocano atmosfere, luoghi, persone, corpi, gesti. Mentre il vapore dilata le narici e i rigagnoli d’acqua scorrono sulle anche, l’esperienza si fa ricordo e la memoria identità.

E’ l’ebbrezza di un momento. Anche l’ultimo torpore del giorno prima presto se ne va. Il presente torna al suo posto. Come se niente fosse stato, come sempre, un biscotto che affonda nel caffelatte saluta già il futuro che non tarda mai.

sabato, agosto 22, 2009

Il diario per Dio

Il fisico Leo Szilard un giorno rivelò all’amico Hans Bethe l’intenzione di tenere un diario: “Non intendo affatto pubblicarlo. Voglio solo tenere un registro dei fatti per poter informare Dio”. “Non credi che Dio lo sappia già, come sono andati i fatti?” gli chiese Bethe. “Certo che lo sa” disse Szilard. “Però non conosce ancora la mia versione”.

Hans Christian von Baeyer – Taming the Atom
Citato in Bill Bryson – Breve storia di (quasi) tutto

domenica, agosto 02, 2009

L’eremita, l’apparenza e il pregiudizio

Mulattiera di Sant'Alberico“Ho girato il mondo per quindici anni e poi ho voltato pagina e mi sono fermato qui”. Così inizia a parlare l’eremita, l’unico solingo abitante delle pendici del Fumaiolo, fatte luogo di fede dal passaggio di Sant’Alberico. Avvolto nella sua veste bianca, l’eremita parla molto: di fede, terremoto, mondo, ospiti dell’eremo, preghiera, rapporto con gli animali. Parla molto e a volte sbaglia: sbaglia l’altitudine, i sentieri e la distribuzione delle fonti d’acqua del luogo dove vive solo da quattro anni.

Con un po’ di disappunto, mi chiedo se un profeta della solitudine può usare il carattere estremo dell’eremitaggio come strumento per apparire. Mi rispondo di no e trascuro le sue parole, cercando nella nuova mappa quella visione del territorio che l’eremita non mi sembra dare.

Me l’avevano detto del resto. “E’ uno dei sentieri più belli del nostro Appennino, ma l’eremita no, l’eremita mi sta sulle palle”. Riascolto quelle parole e le sento pienamente mie. Anche troppo forse e mentre cammino già verso Cella, mi viene il dubbio di essere stato vittima di un pregiudizio e di aver ignorato l’eremita senza mai aver provato ad ascoltarlo davvero.

lunedì, luglio 06, 2009

La foglia del temporale

La pioggia violenta del 5 luglio 2009 mi chiuse all’improvviso l’orizzonte lungo il crinale del sentiero 303 sopra Fiumicello. Nubi veloci nel cielo oscurarono il sole e coprirono le vette. Tuoni con l’eco tutto attorno mi fecero piccolo piccolo. La cima, il passo, il crinale furono dimenticati. Sotto l’ombrello, rannicchiato, con l’udito intorpidito dal cappuccio, mi rannicchiai tra le frasche. Il campo visivo era strettissimo: di fronte a me vedevo solo pochi germogli di faggio che ondulavano e sulla vetta di uno di questi una foglia ingiallita.

Era una foglia giovane, ma invecchiata in fretta. Aveva perso la linfa e l’acqua la scuoteva senza pietà rendendo evidenti le ferite che già segnavano la sua superficie. La guardai con lo stupore che evoca il dettaglio che si staglia su un orizzonte sterminato: se non avesse iniziato a piovere, non l’avrei mai notata, se non mi fossi nascosto tra quelle frasche non l’avrei neppure percepita e invece ora lei esauriva il mio mondo. Tuoni e lampi proseguivano minacciosi e violenti e allora guardavo la foglia con ancor più attenzione: un po’ di sfortuna e quella fogliolina sarebbe stata il mio ultimo incontro. Le ancorai una fitta rete di pensieri: le mie prospettive escursionistiche che non contemplavano temporali così violenti; la promessa di eliminare in futuro progetti troppo temerari; il pensiero dell’auto sicura a fondovalle; il riferimento agli animali, chissà quanti nei paraggi, che sotto frasche simili alle mie avevano fermato il loro vagare a causa del temporale.

Spiovve dopo pochi lunghi minuti
. Un raggio di sole, il primo ad avventurarsi tra le nuvole, trapassò la mia fogliolina trasformando in oro il giallo opaco di pochi istanti prima. Una cortina di vapore si alzò dalla lettiera di humus del terreno e qualche goccia riverberò nel bosco come una lucciola nella notte. Ero asciutto, nessun fulmine mi aveva toccato e gli ultimi tuoni suonavano ormai lontani già proiettati verso il Monte Falco.

Uscii dalla mia nicchia e godetti il sole che aspirava da me l’umidità residua della tempesta. Il vecchio sentiero aveva quasi il gusto di una novità assoluta. Avevo rischiato di perderlo per sempre, ma ora potevo festeggiarne un dettaglio in più, forse noto solo a me: quella fogliolina che non riuscivo a capire quanto, poco o tanto, avesse arricchito la mia esperienza di quel luogo e del mondo tutto.

sabato, luglio 04, 2009

Un protagonista ancora sconosciuto

La guerra nelle montagne di Berceto era durata esattamente quattro anni, nove mesi e venti giorni. Alfio non ricordava chi gli avesse dato un'informazione così precisa. Alfio si doveva fidare: era nato a ostilità avviate, troppo tardi anche per vedere suo padre, tra i primi chiamati al fronte. Si abituò a fare come se non esistesse, come se non dovesse tornare mai più, destino frequente, anche se al fine suo padre tornò.

Quando accadde Alfio era a scuola. La maestra, sempre molto rigida, quel giorno si sciolse. Ruppe il protocollo della lezione, rivolse un sorriso al ragazzo e lo lasciò libero di andare senza ulteriori indugi. La notizia era nell’aria, ma Alfio la accolse lo stesso impreparato. Mentre correva a perdifiato lungo la strada sterrata che portava a casa sua, in testa i numeri delle tabellone contendevano ancora lo spazio all’emozione dell’incontro che gli si stava facendo innanzi. Come sarebbe stato l’uomo che gli aveva dato la vita? Ancora simile all’unica foto sbiadita e tagliuzzata che gli avevano sempre fatto vedere? Oppure sarebbe stato un mutilato come tanti altri reduci? Avrebbe sentito verso quell’uomo qualcosa di particolare, qualcosa di paragonabile all’attaccamento viscerale che aveva verso la madre, o avrebbe dovuto solo fingere verso un estraneo? Era smanioso di raggiungere il finale di una storia che aveva sempre immaginato, ma sentiva anche la paura di toccare una realtà che poi non avrebbe più potuto modificare.

Alfio spalancò la porta di casa, saltò due a due i gradini della scala, scartò con un salto nel corridoio e, ancora ansimante, si buttò addosso all’uomo in divisa che era in piedi in salotto. Ci fu un attimo di silenzio, poi sua madre sorrise, lo prese per mano e gli indicò un uomo all’angolo destro della stanza.

Questa volta timidamente, il ragazzo camminò verso il nuovo sconosciuto protagonista della sua vita
.

domenica, giugno 14, 2009

Riflessi sulla Gorga Nera

Gorga Nera
Gorga Nera
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Cos'è la Gorga Nera
dal sito della Regione Emilia Romagna

"Tornando sui propri passi, si prosegue per il sentiero 17 che scende ripidamente nel bosco. Nel punto dove si attraversa un primo fosso si incontra sulla destra la zona paludosa chiamata Gorga Nera sosta 11. Il termine “gorga nera” veniva usato per indicare luoghi dove si originavano, o si pensava che si originassero, fenomeni acustici come tuoni e boati che si manifestavano soprattutto all’approssimarsi di perturbazioni atmosferiche. Oggi la Gorga Nera rappresenta una delle aree umide più interessanti del parco dal punto di vista faunistico. La dolce depressione è localizzata sul corpo della frana di Castagno d'Andrea, e rappresenta una morfologia tipica delle grandi masse detritiche originate da movimenti franosi, segnate in superficie da contropendenze a cui è legata la formazione di ristagni d'acqua e piccoli specchi lacustri. Dalla Gorga Nera, scendendo attraverso una faggeta ad alto fusto dove si notano ampi avvallamenti che indicano ancora l'area della frana, si fa ritorno in breve alla Fonte del Borbotto".

venerdì, giugno 12, 2009

Sacro, disorientante, identificante, rigenerante. Fenomenologia del cammino contemporaneo

Articolo pubblicato su AmbienteInformazione
Rivista dell'Associazione Italiana Guide Ambientali Escursionistiche

CorchiaCamminare non basta più. L’ultima edizione di “PassoParola”, il festival del cammino ospitato a Berceto, Cassio e Corchia, nell’Appennino parmense dal 30 maggio al 2 giugno 2009, lancia un messaggio chiaro: camminare, oggi, è, o almeno pretende di essere, qualcosa di più di un esercizio fisico in quota. Camminare, “gridano” in coro i camminatori di professione invitati al festival, è un gesto che ha valenze politiche, religiose, filosofiche, ambientaliste, new age e molto altro ancora. Così come i pittori di fine Ottocento, vittime dell’industrialismo, fuggivano verso mete esotiche per trovare ambienti puri e ispiratori, così, oggi, i neo-camminatori, forse stanchi di decenni contraddistinti da tabelle di marcia e dislivelli altimetrici modello Club Alpino Italiano, sembrano fuggire dallo stereotipo della passeggiata in montagna per, in ordine sparso, sporcarsi le pedule lungo fiumi e pianure, puntare a mete dalla valenza simbolica come chiese e città sacre, seguire rotte anonime a ritmo lento, andare a caccia di echi e suggestioni letterarie o entrare nel paesaggio lungo le vie della geografia, della botanica o della geologia. “Camminare – ha detto in apertura di Festival Italo Testa, docente dell’Università di Parma e coordinatore del seminario Pensieri Viandanti – è una pratica espressiva. Camminare non è solo un modo per leggere il paesaggio, ma anche un modo di scriverlo”.

Se camminare, da solo, non basta più, si può farlo assieme a un asino. E’ il suggerimento lanciato da Massimo Montanari, amante-allevatore di asini che da tempo impiega i suoi quadrupedi per itinerari a piedi, format educativi o sessioni terapeutiche. Il vantaggio? Si va più piano e si osserva meglio ciò che ci circonda. “Quando l’asino si ferma c’è sempre un motivo – spiega Montanari -. E’ un esploratore nato e, con le sue soste, trasforma anche chi è con lui in un esploratore. Chi viaggia con un asino ha sempre qualcosa da raccontare. Anche perché l’asino ti dà un grosso vantaggio emozionale: quando entri con lui in un paese è come arrivare con la carovana del giro d’Italia… tutto il paese ti aspetta!”.

Asino a parte, camminare con mappe e gps non piace neppure all’alpinista Franco Michieli. Al festival presenta il documentario relativo alla sua ultima avventura: una lunga marcia nella costa norvegese, tra guadi, fiordi e ghiacciai, condotta senza alcun strumento di orientamento. Nessuna mappa, nessuna bussola, né, ancor meno, gps o altri orpelli digito-satellitari. “Sono sempre più convinto – racconta Michieli – che i media ci sottraggano spazi e tempi per una libera interpretazione del mondo. Anche il gps è un media, uno strumento che ci anticipa il mondo allontanandoci dai segnali che la natura ci manda. Per questo sono partito senza nulla: per vedere davvero cosa accade nel mondo e provare a interpretare solo con i miei sensi un percorso, un percorso di cui, dopo il mio passaggio, non è rimasta alcuna traccia. Io stesso non saprei ripercorrere i miei passi: probabilmente nuovi indizi mi guiderebbero lungo altre vie”.

Per uno, come Michieli, che cammina per allontanarsi dalle identità dei media, c’è un altro, il sociologo francese Mikail Jakob, che cammina per difendere la sua identità sociale. “Camminare – spiega infatti Jakob – è un fatto culturale che non è comune a tutti. Quando ero in America, per esempio, mi sono reso conto di quanto il cammino fosse estraneo alla cultura locale. Lungo i viali alberati della California la polizia si fermava e mi chiedeva perché stessi camminando con mio figlio. Non capivano il piacere che provavo a farlo. La loro era la cultura dell’auto: tutto è così a misura di auto che una volta ho scovato anche una drive-in church, una chiesa attrezzata per confessarsi senza scendere dalla propria vettura”.

Camminare può poi diventare anche un gesto politico. Lo è per il fotografo camminatore Riccardo Carnovalini. “Ho fatto lunghi viaggi all’estero – spiega Carnovalini che nel 1985 percorse da Trieste a Ventimiglia tutte le coste italiane per animare le sue battaglie ambientaliste – ma per lo più ho camminato in Italia, per mettere sotto le pedule un terreno che sentissi veramente mio. Non è un caso. In una congiuntura storica in cui ogni giorno qualcuno sfascia un altro lembo del nostro paese, credo che camminare, riappropriarsi del territorio, viverlo appieno, sia l’unico vero gesto rivoluzionario. Potremo parlare davvero di turismo sostenibile quando i turisti saranno i residenti, quando gli abitanti di un luogo torneranno a conoscerlo, scoprirlo, capirlo e dunque difenderlo”.

La lentezza degli asini di Montanari, il disorientamento di Michieli, l’orizzonte sociale di Jakob e quello politico di Carnovalini sono però modi di camminare di nicchia rispetto al vero cammino celebrato a Berceto nel 2009: il pellegrinaggio. Berceto è uno dei posti tappa più importanti della via Francigena, la rotta tra Canterbury e Roma, che aspira a diventare una nuova Santiago. Nello spazio fiera si accavallano le guide dedicate agli itinerari religiosi e sul palco si incrociano le ipotesi sul ritorno al cammino sacro. “E’ la voglia di mettersi in comunione con la storia”, spiega Miriam Giovanzana, curatrice per l’editore “Terre di Mezzo” di molte guide dedicate alle rotte di pellegrinaggio. “C’è chi cammina per tracciare nuove vie – spiega Giovanzana – ma altri, come me, che amano percorrere le orme di chi ci ha preceduto. Lungo i pellegrinaggi è più facile sentirsi parte di un unico flusso. Lo vedo su di me anche nei piccoli gesti: ho incontrato un albero di mandorle, ma non ho raccolto tutti i frutti che desideravo, perché ho sentito il bisogno di lasciarne in dote a chi sarebbe passato lì dopo di me”.

A parlare di pellegrinaggi a Berceto c’era anche Enrico Brizzi, lo scrittore bolognese che recentemente ha dedicato al suo cammino lungo la via Francigena il testo di narrativa Il pellegrino dalle braccia di inchiostro. “Se uno è sicuro di sé – ha detto Brizzi – fa il politico. Se uno cammina, invece, è probabile che si stia facendo delle domande. E’ una costante di ogni pellegrinaggio, ma in genere direi di ogni camminatore, dal trekker con scarponi modello replica K2 anni cinquanta a chi naviga a vista con le scarpe da ginnastica acquistate il giorno prima. Penso per esempio al broker fallito che ho incontrato nel nord della Francia. Io all’epoca andavo molto lontano, a Roma, ma lui addirittura non sapeva dove andava. Aveva perso tutto, compreso la moglie che evidentemente non era troppo sportiva in fatto di economia. Se fosse rimasto fermo, avrebbe abusato di psicofarmaci. Camminando invece evitava di pensare. Aveva scelto il nord della Francia perché vi aveva visto dei canali, aveva dedotto quindi che doveva essere una zona di pianura più adatta alle sue gambe poco allenate. Più avanti forse avrebbe fatto rotta verso le Alpi”.

Troppe scelte per capire qual è il vostro camminare? Nel dubbio, potete seguire il consiglio di Brian Eno, citato da Giulio Mozzi nel corso della sua escursione-laboratorio di scrittura: “Di fronte a una doppia opportunità, coglile entrambe!”.

sabato, giugno 06, 2009

Oggi, al di là della soglia, o domani dentro tutto il resto

Il ticchettio sulla tastiera si è appena sopito. L’ultimo nato dei miei articoli brilla sul video da poco concluso. Rileggo quelle parole scritte per dovere, per lavoro, ritocco qualche parola qua e là, sostituisco qualche segno di punteggiatura e infine chiudo il file. L’ora è già tarda e a fianco alla tastiera è già pronta la lista di cose da fare per il giorno successivo. Mi fermo un po’ di fronte al desktop, indeciso se spegnere tutto o restare ancora un po’ lì a elaborare alcuni dei pensieri che da giorni chiedono di avere spazio. I secondi passano, ma la decisione non arriva. Da una parte c’è il mondo, quello vero, che sembra quasi imbizzarrito, che mi guarda e mi grida “Ehi tu, dico proprio a te, non fare finta di niente: avevi paura che ti ignorassi, mi hai chiamato e ora non mi puoi ignorare”. Nel suo appello c’è un po’ di tutto: scadenze che si intrecciano, amici che chiedono, familiari che hanno bisogno, giorni che si riempiono senza sosta. Darsi tutto, darsi completamente aiuta ma non basta: non basta per non apparire egoista verso qualcuno. Ma non è tutto. Dall’altra parte c’è un mondo trascurato di cui sento la mancanza: un non luogo, estraneo all’azione, intriso di osservazione. Qualcosa di simile alla “panchina” dell’ultimo romanzo di Sebaste: un posto dove perdere tempo senza l’affanno del tempo che corre. Una piccola parentesi, al di là della soglia del reale, dove dare il conforto di un racconto alla frenesia di una trama impazzita.

Rimango sospeso in questa indecisione per un po’. Poi mi viene in mente una frase raccolta pochi giorni fa
. “Ho lottato a lungo con il problema dei calzini bagnati nei grandi trekking norvegesi, ma alla fine ho trovato una soluzione: la mattina me li rimetto bagnati e parto con loro. E’ la solita storia: se vincere un nemico ti costa troppa fatica, impara a conviverci e ti sarà amico”.

Spengo il computer e giro a testa in giù il foglio con la lista per il giorno dopo. Ora mi riposerò e domani farò qualcosa estraneo a quell’elenco. Il monitor si oscura e il sonno trova spazio.

lunedì, maggio 25, 2009

Via dei Romei: prospettive primaverili

Monte Falco: prospettiva da Serra

Monte Penna: prospettiva da Biforco
Monte Penna
Santuario de La Verna: sasso spicco

La Verna: sasso spicco

Per saperne di più sulla via dei Romei e Biforco:
"Metti avanti il calendario che così stai bene per un po'"

domenica, maggio 24, 2009

Metti avanti il calendario che così stai bene per un po’

BiforcoBiforco, comune di Chiusi La Verna, provincia di Arezzo, due di auto da Firenze, un paio d’ore scarse a piedi dal valico di Passo Serra lungo la Valle Santa. Biforco conta una decina di case in pietra, un circolo e 45 anime residenti. Sabato sera erano tutte in piazza: per la politica, come una volta, come nei film. Il circolo di Fiorella, il cuore del paese, il metronomo dei suoi abitanti, ospitava il comizio della lista “Gente nuova per Chiusi”. “E io non scherzo mai nella politica e nelle carte” mi dice la signora, che ora ha una speranza. E’ una massicciata vecchia di secoli che sale su da Bagno e scende giù verso la Toscana proprio passando in mezzo al suo circolo. Si chiama via dei Romei e la gente, dopo anni di oblio, sembra averla riscoperta. Ai lati della massicciata ci sono le frecce verdi e bianche del Cammino di Assisi e i cartelli intarsiati del Sentiero delle Foreste Sacre. Sulle lastre di arenaria incastonata nel terreno nuovi pellegrini hanno incominciato a transitare. “Anche gruppi di trenta mi telefonano – dice Fiorella – e una volta anche un Giapponese. Chi parte da Dovadola, chi da Bagno, chi arriva ad Assisi, chi si ferma a Chiusi”.

Il circolo di Fiorella è la salvezza di Biforco. I cammini religiosi lungo la via dei romei sono la speranza di salvezza del circolo di Fiorella. Ma la storia può sempre cambiare, specie sotto le elezioni. E allora è meglio stare attenti. Sarna e Corezzo non sono troppo lontani dalla via e sono più forti di Biforco. “Si sa mai che non ci freghino anche la via” ride Silvia, figlia di Fiorella.

Sono quasi le sette di sera. La sagoma del versante sud del Monte Falco si affievolisce. Il trattorino che portava l’erba ai conigli si spegne, la signora che prendeva il sole nel giardino della porta accanto si ritira. Silvia taglia il cacio, versa il vino e affetta il prosciutto. Non porta piatti. “La roba non manca, ma l’organizzazione non si sa neppure dove sta di casa”. Il vino è rosso, nel fiasco; l’acqua è poca: dicono non sia mai andata troppo.

“Ma perché valle Santa?” chiedo ai presenti.
Mi risponde prima la voce più esperta accorsa per il comizio. “E’ dai tempi Francesco”.
“No, da prima - precisa Silvia, che ha studiato ad Arezzo – non so esattamente da quando, ma è da prima di Francesco di sicuro. L’ho visto citato in libri più vecchi”.
“Per la religione?”.
“Sì, per La Verna, credo. I pellegrini salivano fin lassù perché gli era garantita una settimana di vitto e alloggio. Erano buoni Cristiani, anche se qua il Cristianesimo si è sempre mischiato con le abitudini pagane”.
“Luogo di streghe?”.
“Quante ne vuoi. Non si contano le storie sul monte qui sopra, monte Fatucchio”.

La notte di politica si trascina a lungo. La mattina dopo il paese tace: alle nove il circolo di Fiorella è ancora a porte chiuse. Alcune signore cominciano a bussare alla porta per prendere il cacio e il pepe, ma Fiorella non si vede.
“A che ora vi aveva dato appuntamento?” chiedono a me e a mio fratello che la aspettiamo per la colazione.
“Eravamo rimasti per le nove meno venti”.
“Bene – dice uno – siamo già a una mezz’ora di ritardo. Date retta a un bischero. Quella in un supermercato non la prendevano nemmeno a fare una prova. Appena vedevano come la camminava, la cacciavano”.
“Orsù Gianni, non rompere e mandala a chiamare!”
“C’ho già mandato Pietro, che ti credi!”.

Fiorella arriva di lì a poco, sveglia da niente, con la sigaretta in mano di sempre. Biforco si rianima alla sua presenza. Chi entra e chi esce, chi resta e chi va. Una signora di Firenze sposta il giornale vecchio di due giorni e si sofferma sul calendario.
“L’è ancora fermo a febbraio” dice col sorriso.
“E che è – risponde Fiorella tra un cappuccino e un formaggio – qui il tempo non corre mica come a Firenze: non ci scappa mai via”.
“Lo fanno per rimanere giovani” ci dice ammiccante la fiorentina. Poi prende il calendario e apre la pagina di giugno: “Lo porto un po’ avanti così stanno bene per un po’”.

Ridiamo tutti. Poi pago, con calma, quando sono già più delle dieci. E’ tutto in ritardo a Biforco, anche il comizio dell’altra lista in lizza per le comunali. Fiorella scrive tutto, ma in totale non costa quasi niente: una notte, una cena, una colazione e un pranzo per il nuovo giorno vengono meno di una pizza.

Ci salutiamo.
“Tornate ora che abbiamo fatto amicizia?”.
“Le porterò quanta più gente potrò”.
“Ecco sì, bravo, che così facciamo una festa e magari vi faccio anche trovare il libro degli ospiti”.

Lasciamo Biforco e proseguiamo sul selciato della via dei romei. La Verna dista solo tre ore: il Monte Penna è sempre all’orizzonte. “Quella donna è la salvezza del paese” mi dice mio fratello. “Tutti si fermano lì a chiedere cosa succede. Se lei chiudesse, non succederebbe più nulla”."