martedì, aprile 29, 2008

50 anni dopo: appuntamento con gli sconosciuti del giornale

Ben visibile in mezzo al pascolo c’era la capanna dove la ragazza consumava la maggior parte delle ore lavorative. Un incrocio di assi povero e incompleto, che poco o nulla sembrava rispetto al grande albero lì vicino. Dentro lo stanzino in legno, sudicio e pieno di spifferi, c’erano poche galline smagrite e un’accozzaglia di badili e zappe dai manici contorti e dalle lame arrotondate e arrugginite.

La giovane donna passava così tante ore attorno a quel capanno affaticata dal lavoro, che subito, appena poteva, se ne allontanava. Non esisteva pausa o tregua, se non lontano da lì. Però il destino volle che proprio lì vicino finisse per trascorre i momenti più emozionanti della sua vita. Poco più sopra c’era infatti il grande albero: era il più maestoso, l’unico in grado di offrire con i suoi rami riparo dal sole e con il suo tronco riparo dagli occhi indiscreti. Nelle sue vicinanze vi si nascondevano ragazzi per fare giochi da bambini e adolescenti a spingersi un po’ più in là nella vita da adulti.

Anche la giovane donna scelse dunque la quercia per nascondere la sua passione con quel ragazzo della parrocchia vicina: un contadino anche lui, ma dai modi borghesi, con un doppio petto più elegante di quello di tutti gli altri. Il giovane uomo l’aveva sedotta con una storia strana a cui lei non sapeva se credere o no: il contadino borghese le aveva detto che, proprio lì vicino alla sua capanna da lavoro, alcuni secoli prima era passata anche la famosa Caterina Sforza, la signora di Forlì. La giovane donna non aveva mai udito prima quel nome, ma le faceva piacere immaginare di lavorare notte e giorno su una campagna calpestata anche da una dama di città. Aveva preso ad amare quella storia e un poco anche chi gliela aveva raccontata.

Aveva confessato subito il primo amore, mentre tenne a lungo nascosto il secondo. E a nasconderlo, andò sempre dietro la quercia, nell’angolo dove ormai l’erba portava la sua impronta.

Mezzo secolo dopo la donna ormai invecchiata decise di rivelare quel vetusto segreto a un gruppo di sconosciuti: la signora diede loro il benvenuto seduta sotto la sua quercia, attendendo fiduciosa proprio all’ora in cui il giornale del giorno prima ne aveva annunciato il passaggio. Salutò il piccolo manipolo senza dare peso al loro stupore. Si lasciò andare anche a qualche battuta, ma senza avere troppo tempo per andare oltre. Le sue parole furono infatti nascoste da quelle del marito. Era l’amante di allora: ancora riconoscibile dal suo vestir borghese, ancora orgoglioso di raccontare che nel suo comune era passata anche “la Caterina Sforza”, la signora di Forlì.

Fu un incontro tranquillo, senza formalità, senza scambio di nomi. La coppia nata all’ombra della grande quercia si dileguò da dove era venuta, allontanandosi dal suo appuntamento col destino a bordo di una piccola Panda verde come i pascoli ai margini della strada.

sabato, aprile 26, 2008

Magie dermatologicamente testate

Quelle odiose verruche proprio non volevano saperne di scomparire. Ciclicamente si riaffacciavano, più o meno sempre nella stessa posizione: sotto il mento. Temporeggiavano per qualche settimana fino a quando una di loro si sporgeva avanzando inarrestabile.

Il dermatologo era già intervenuto più volte per asportarle e la diagnosi era sempre stata la stessa: fenomeno psicosomatico. “Sono verruche filiformi – diceva – non si propagano quando fai la barba. Sono il tuo punto debole: sei sotto stress e lo sfoghi così”.

Le verruche ricomparvero una volta ancora e il paziente una volta ancora varcò la soglia del dermatologo, un nome noto dell’ospedale più noto della città. La routine fu la stessa. Si distese sul lettino, aspettando le agili trinciatine sulle sue protesi inutili. Fu lì, tra strumenti di precisione e disinfettanti polifunzionali che la dottoressa si lasciò andare oltre la solita diagnosi. “Perché non ti fai toccare?” chiese.
“Cioè?” rispose il paziente indeciso.
“Dal mago – dico – solo che non so più quale suggerirti. C’era quello di Castrocaro, ma credo che non visiti più”.

Orchidea bianca

Orchidea bianca

martedì, aprile 22, 2008

L’indiana sotto la quercia di Montalto

Era ormai sera quando raggiungemmo il cortile del casolare: i muri in pietra della casa davano un’idea di eleganza, mentre i fogli di lamiera sui tetti delle capanne per gli attrezzi lasciavano un po’ di spazio all’incuria. Era la terza casa incontrata lungo la breve discesa dalla quercia di Montalto, l’ultima prima della parrocchia di Sant’Eufemia. Stavamo attraversando quell’aia sbadatamente – io, l’indiana, il geometra e la farmacista – quando una ragazza non più giovanissima, o forse solo non curata, ci si fece incontro rallentando il nostro incedere. La donna di casa precedeva di poco il padre: anziano, ma solido, sdentato ma sorridente, socievole ma a corto di contatti umani.

In quella strana compagnia – gli ultimi abitanti di Montalto, io, l’indiana, il geometra e la farmacista – si parlò un po’ di politica e di una delle tante tasse, un poco più insensata delle altre, che nessuno dei presenti voleva pagare. Però si parlò di quello come si sarebbe potuto parlare di altro.

“I nostri parenti – disse il vecchio – ci dicono che a Roma non si vive più. Qui invece abbiamo così tanto spazio che a volte manca la persona per scambiare due chiacchiere”. Disse ciò prima di entrare tra i suoi animali – qualche vacca e qualche vitellino – portando con sé lo stupore per quella ragazza del nostro gruppo che sembrava bella e intelligente, ma che proprio non riusciva a farsi capire. “Ma tu, dimmi – mi chiese infine non resistendo alla curiosità – capisci quello che dice?”.

“Quel tanto per capire che tu sarai uno dei suoi più indelebili ricordi” avrei forse dovuto rispondere all’ultimo contadino di Montalto di Premilcuore.

venerdì, aprile 18, 2008

In una notte tirata a tardi

Il suo buon senso gli diceva chiaramente che non era il caso di tirare avanti quella notte ulteriormente. Fuori era già buio da molto, da ore. La serata era stata densa di interrogativi mediati e personali. E la mattina seguente era già lì, quasi minacciosa col rapido trascorrere dei minuti. Il sonno aspettava solo un segnale per arrivare, cancellare tutto almeno per un po’ e lasciare pronti anima e corpo a un nuovo giorno di idee, progetti, parole e conoscenze tese a qualcosa. Qualcosa a volte sfumato, ma da produrre.

Le parole udite poco prima però non si cancellavano facilmente. Avevano avuto il tono bonario del rimbrotto materno, ma proprio quella gentilezza rendeva più difficile trascurarne il messaggio. Quelle parole dicevano di lasciare perdere per un po’ il buon senso e tirare avanti nella notte contro ogni logica per imbastire due righe, un pensiero, un racconto come non capitava più da alcuni giorni.

Fu così che l’ometto sottrasse qualche tempo al sonno per restare sveglio di fronte al portatile in un unico gomitolo di gambe, coperte, fili e tastiere. In quell’inusuale posizione, con le palpebre appesantite, i capelli schiacciati e le mani lente sui tasti, dedicò due parole alla capanna del vignaiolo vista qualche giorno prima. La scelse perché gli sembrava di comprenderne la cattiva sorte: il piccolo rudere, circondato da mille cose più utili, non aveva speranza di vedere una mano sulle sue vetuste travi. Il buon senso non lasciava spazio a quell’edificio. La sua unica speranza era un lavoro testardo, portato avanti senza troppo utilità in un'altra notte tirata a tardi.