martedì, gennaio 29, 2008

La sagoma dietro alla finestra

Era mattina presto quando varcai il cancello. L'oscurità della notte trascorsa al lavoro rendeva ancora difficile distinguere cose e persone. Entrambe si manifestavano come forme indefinite. Fu così che notai, dietro la tenda della finestra al primo piano, la sagoma di una donna. Fui sorpreso dalla sua presenza così mattiniera ma salii al piano superiore senza farci caso.

Qualche ora più tardi, rinfrancato da un sonno frammentato, ero di fronte a un caffè caldo pronto a riprendere la via della città. “Ti devo dire una cosa - mi disse a quel punto la zia sottovoce – Una brutta cosa. E' una di quelle schifezze che capitano solo in città”.

Mi preparai ad ascoltarla mentre con la mano aperta e lo sguardo accigliato la donna si apprestava a svelare il piccolo segreto: quello che dovrebbe rimanere nascosto, ma non si può fare a meno di condividere.

“Questa mattina – iniziò a raccontare – sono uscita di casa alla solita ora per andare al fare il giro al mercato. Forse solo un poco prima del solito perché non ho rifatto la camera dove tu riposavi. Ero ormai vicino all'uscita quando la signora del piano di sotto ha picchiato alla finestra. Sapeva che sarei scesa a quell'ora: studia i miei orari. E poi resta sempre in ascolto del rumore che fa la porta quando le do il tiro. Lo sai cosa mi ha chiesto? Mi ha chiesto chi era il ragazzo arrivato al mattino. L'ho guardata stupita e le ho domandato come faceva a sapere del tuo arrivo. “L'ho visto” mi ha risposto lei. “Chi è?” mi ha poi incalzato. Le ho detto allora che eri il mio “babì” che lei non aveva mai conosciuto”.

Sorrisi ripensando alla scena e alla sagoma nascosta dietro alla tenda intravista al mattino. “Non ce la faccio più con quella – aggiunse allora lei sconfortata – Sa tutto quella. Sa quando esco, sa chi è che parcheggia l'auto di fronte al cancello. E' sempre dietro alla finestra che guarda fuori. Ormai è diventata famosa anche nel condominio di fronte: le recitano appositamente delle parti per farsi vedere!”.

“Brutte cose” mi disse ancora la zia salutandomi. Pochi gradini più sotto, mal celata da una porta semiaperta, una figura origliava i miei passi verso l'uscita.

lunedì, gennaio 28, 2008

Sulla porta di Pian di Rupino

Pian di Rupino

I pesci in viaggio per Torino e il gatto artificiale di Monte Fuso

“Quando viaggio in treno verso Torino – dice Chiara – incontro sempre personaggi strani. L'ultima volta per esempio c'era un poliziotto con grandi cassette di legno. Vi trasportava gli acquari con i suoi pesci: animali magici, diceva lui, ai quali si era totalmente legato. Li operava ogni volta che un tumore minacciava la loro salute. Li portava a filo d'acqua, asportava loro la parte malata della coda e infine li rilasciava liberi dopo aver disinfettato la ferita con il mercurio cromo. E, anche in treno, non faceva altro che parlare e prendersi cura di loro. Ogni dieci minuti si alzava per controllare che tutti i finestrini del vagone fossero chiusi e che i suoi pesci magici non prendessero freddo”.

Maschera di gatto alle pendici di Monte FusoChiara, clown di corsia per professione e clown di giornata per vocazione, parlava mentre il sentiero tra Monte Fuso e Bocconi si arrotolava in due strette curve all'altezza di Pian di Gattoni. Un toponimo dal sapore di coincidenza in una giornata trascorsa sotto le plastiche forme di una maschera da gatto. L'aveva portata con sé Sandra, preferendola alla maschera di cavallo. Non c'era alcun motivo apparente dietro a questa scelta, né dietro alla presenza stessa della maschera durante l'escursione, ma il “gatto di plastica” faceva sentire la sua presenza invocando un ruolo da protagonista. A ogni sosta finiva sulla faccia di qualcuno e Sandra faceva scattare più e più volte la sua reflex. Anche il resto del gruppo invero cedeva spessp alla tentazione di fotografare quell'inconsueto connubio tra colori da carnevale e bosco autunnale.

La maschera da gatto fu riposta solo al rientro a Bocconi, quando Sandra avrebbe forse svelato la ragione di quella strana presenza. Forse, perché la spiegazione non arrivò mai in realtà. Nel piccolo bar sulla statale 67, l'umore della fotografa precipitò. La signora dietro al banco negò alla ragazza tutto ciò che cercava. “Finito” le disse quasi con stizza in due occasioni.
La fotografa si lasciò allora a un vago pessimismo cosmico: “Capita spesso” rispose.
A nulla valse per ritrovare il sorriso una nuova serie di scatti: ai cinghiali appesi alla parete, allo scaffale con gli elenchi telefonici, al marrone scolorito del legno dei tavoli. Nessun soggetto riportò il buon umore nell'occhio dietro all'obiettivo. E nel malumore restò intrappolato anche il perché di quello strano orpello carnevalesco trascinato fino al crinale di Monte Fuso.

sabato, gennaio 26, 2008

I piccoli intrecci a cui non basta non pensare

maniL'apprendista "adulto" camminava distrattamente. Procedeva verso il parcheggio trascurando i dettagli delle vie attraversate. Rifletteva tra sé e sé sul gomitolo di relazioni sociali delle ultime ore: il solito intreccio che comprendeva piccoli successi, strappi imprevisti, reazioni inaspettate, e alcuni sfoghi eccessivi.

Il giovane si stava convincendo a non dare peso alla “dark side” di quel gomitolo: tutto era semplice routine. Ne era certo. Pensare di non dare peso a quei piccoli incidenti, però, era già un piccolo fallimento. Quelle preoccupazioni, più semplicemente, non dovevano esistere. La loro presenza, vaga traccia di un eccesso di umanità fuori luogo, era spazio rubato a calcoli e azione.

Fu in quel frangente che il giovane notò la sporta semi aperta di una donna pochi più metri più avanti. Il ragazzo accelerò il passo per segnalare il pericolo. Stava allungando la sua mano sulla spalla della sconosciuta, quando questa si ritrasse violentemente, mostrando uno sguardo impaurito e livido: “Mi lasci perdere o inizio a urlare” disse tra i denti la donna.
“Guardi - provò a protestare il giovane – che...”. Ma la signora non ascoltò repliche.

Il ragazzo si convinse che non valeva la pena risentirsi per quello che era appena accaduto. Però riuscì solo a pensare che non avrebbe dovuto pensarci più.

domenica, gennaio 13, 2008

Il sonno della paura

Veniva da una famiglia propensa a catturare qualche extra dalla malavita. Il nonno, come professione, diceva di fare il giocatore. Non giocava, in realtà: passava i fine settimana in giro per le bische della Romagna a riscuotere una sorta di pizzo: per sedere al tavolo occorreva versare la quota, altrimenti non si entrava o si finiva ancora peggio.

Il business man aveva ereditato l'indole del nonno, ma l'aveva trasferita alla prostituzione. Il sesso a pagamento era un vizio più diffuso del gioco, quindi più redditizio: gli introiti crescevano secondo economie di scala. Andò tutto bene, fino al giorno in cui alla sua porta si presentò un giornalista. Il manager chiese se era lì per un “passaggio”, ma lo scribacchino rispose che era lì per lavoro. Dopo pochi istanti, una decina di volanti dei carabinieri sbarrò le vie d'uscita, facendo irruzione all'interno. Cercarono le donne anche nei frigoriferi.

“Hai avuto paura?” chiede l'amico al business man al termine del racconto
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“Dei caramba?” fa lui in tono di scherno, alzandosi il colletto del cappotto. “Io non ho paura di nessuno. Figuriamoci di un idiota in divisa”.
L'amico ride, prende le sigarette dal tavolo e se ne va. Il business man invece resta seduto ancora per un po'. “Certo non è stata una bella esperienza” riflette a voce alta. Guarda l'orologio per constatare che è di nuovo tardi. Si versa qualche goccia di tranquillante in attesa di un sonno che non trova spazio tra i pensieri.